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Il pacifismo antisemita pro-Hamas tradisce i valori della Liberazione

Vittorio Ferla venerdì 26 Aprile 2024
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di Vittorio Ferla

 

Al di là delle dichiarazioni di rito sull’unità del fronte antifascista, le celebrazioni del 79° anniversario della Liberazione hanno riproposto la solita scenografia di divisioni e steccati ideologici. A dire il vero, quest’anno molto peggio che negli anni scorsi visto l’attacco frontale sferrato alla comunità ebraica. Che è storicamente, senza ombra di dubbio, la principale vittima del totalitarismo nazifascista. Un tragico paradosso.

La mattina a Roma, in piazza di Porta San Paolo, va in scena la prevista contestazione dei movimenti filopalestinesi nei confronti della Brigata ebraica, una delle storiche formazioni protagoniste della Resistenza. Una contestazione che si rivolge estensivamente a tutta la comunità ebraica, benché questa non abbia nulla da spartire con le scelte del governo di Benjamin Netanyahu. Del resto, il fenomeno è diffuso nelle università italiane e statunitensi, diventate luoghi off limits per gli ebrei. Successivamente il corteo pro Palestina a Roma sosta per qualche minuto davanti alla bandiera israeliana alla Fao: “La polizia sta proteggendo la bandiera di uno stato genocida”, urlano i manifestanti sventolando il vessillo palestinese.

Non va diversamente a Milano dove Piazza Duomo è gremita di attivisti filo-palestinesi. “Siete come i nazisti”, urlano i militanti filopalestinesi per le strade del centro al passaggio della Brigata ebraica. “Dal Donbass alla Palestina, liberazione dalla Nato assassina”, recita lo striscione esposto dagli attivisti al passaggio della comunità ebraica: un messaggio inequivocabile che rappresenta chiaramente la strumentalizzazione dell’antifascismo in funzione antioccidentale. A Venezia, quando il sindaco Luigi Brugnaro celebra la festa della Liberazione nel Ghetto, dopo aver cantato Bella Ciao insieme ai presenti, viene ricoperto da una salva di fischi da parte dei giovani del gruppo “Venezia antifascista”.

Mai come quest’anno la festa della Liberazione è sprofondata in una tragica contraddizione. Il principale obiettivo polemico è diventato lo stato di Israele: un esito paradossale che mescola l’antifascismo con l’antisionismo rinnovando, di fatto, la caccia all’ebreo.

Il migliore commento sul tragico tradimento dell’ispirazione più profonda del 25 aprile viene dalle parole del Manifesto della Sinistra per Israele “Dal 7 ottobre alla pace”, pubblicato il 6 marzo scorso. Come si legge nel testo, “le radici di Israele affondano in una storia che i progressisti europei devono sapere riconoscere e valorizzare. Il sionismo è stato il legittimo movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico e in esso sono vissuti e tuttora vivono i valori di uguaglianza, giustizia, liberazione umana della sinistra democratica e del progressismo. Vivono, come nella straordinaria esperienza dei kibbutz, il progetto e il sogno di una società più giusta, di donne e uomini liberi ed eguali”. Il Manifesto continua ricordando che “soltanto la conoscenza delle radici di Israele può arginare i pregiudizi anti-sionisti e anti-israeliani che albergano nella società italiana, anche a sinistra e nel campo progressista, e che si manifestano attraverso forme antiche e nuove di delegittimazione, di ostilità, quando non di aperto antisemitismo”.

Gli slogan dei cortei estremisti e la postura settaria di ben affermati circoli mediatico-culturali non si limitano a contestare le politiche di difesa del governo Netanyahu bensì avallano esplicitamente l’idea di Israele come stato oppressore e colonialista tout court, espressione di un occidente imperialista che va combattuto con tutti gli strumenti possibili, anche a costo di favorire l’affermazione del fondamentalismo islamico che vuole cancellare Israele (“Dal fiume al mare” significa proprio questo). Ma in questo modo si cancella proprio la storia della Liberazione.

“È triste che qualcuno possa contestare la nostra presenza, a Porta San Paolo come a Via Tasso, perché nessuno più di noi ha diritto a celebrare la Liberazione. La nostra comunità è stata al tempo stesso vittima e testimone dell’orrore nazifascista. Vittima dell’antisemitismo, delle leggi razziali, della persecuzione, della deportazione del 16 ottobre 1943, delle espulsioni dei nostri figli dalle scuole, dei nostri professori dalle Università e dei funzionari pubblici e militari, servitori dello Stato e patrioti italiani, dalle loro scrivanie e uffici, e dei nostri nonni e bisnonni dalle loro case”, sottolinea Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma. “Oggi, c’è chi vorrebbe cancellarci dalle mappe come dalla Storia – continua Fadlun – ma noi ci siamo, e la nostra presenza è il segno della persistenza di un presidio etico importantissimo, in un momento come quello attuale in cui tornano a essere incerti i confini tra il bene e il male. E riemerge l’antico odio antiebraico, l’insofferenza, l’intolleranza verso l’ebreo in quanto ebreo (“Morte all’ebreo”, abbiamo sentito ripetere nei cortei pro-Hamas) che si manifesta e alimenta nelle università. E pretende di essere antifascista, mentre si rivela soltanto, inguaribilmente, antisemita”.

Del resto, tra i principali generatori di questo clima insopportabile c’è proprio l’Anpi, l’associazione dei partigiani che per la manifestazione di ieri ha scelto lo slogan “Cessate il fuoco ovunque!”, un messaggio apparentemente bonario e politicamente corretto che nasconde tuttavia un significato sinistro: la resa di Israele alla prepotenza fondamentalista di Hamas e la resa dell’Ucraina alla volontà di potenza della Russia. Dimenticando clamorosamente che i terroristi palestinesi e il governo di Mosca sono esattamente i soggetti che più di ogni altro incarnano nel mondo contemporaneo il delirio totalitario del fascismo. Contro queste minacce bisogna pur difendersi.

Come ha detto ieri il presidente della Repubblica nel suo discorso sul 25 aprile a Civitella in Val di Chiana, “a differenza dei loro nemici, imbevuti del culto macabro della morte e della guerra, i patrioti della Resistenza fecero uso delle armi perché un giorno queste tacessero e il mondo fosse finalmente contrassegnato dalla pace, dalla libertà, dalla giustizia”. Le armi furono necessarie per difendersi e liberarsi dal giogo della tirannia, insomma. Vale oggi per Israele come per l’Ucraina. E la pace resta un obiettivo fondamentale, ma solo se va a braccetto con la libertà e la giustizia. Non può essere sinonimo di resa.

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