di Ranieri Bizzarri
Un famoso aneddoto attribuito (non so con quale veridicità) ad Enrico Fermi, recita così. Anche per il famoso professore universitario X è arrivato il momento di decidere chi dovrà succedergli. Non volendo che il successore faccia ombra alla sua fama, X sceglie Y, il più stupido dei suoi allievi; gli altri si disperdono nelle altre Accademie. Y ragiona come X, e al termine della sua carriera sceglie come successore Z, il più stupido dei suoi allievi. Il ciclo continua finché l’ultimo arrivato, K, è così stupido che non riconosce il più stupido dei suoi allievi, e mette in cattedra un collaboratore W decoroso o financo geniale.
Questo aneddoto mi è tornato alla mente dopo la vittoria di Elly Schlein alle primarie del PD, e proverò qui a spiegare perché.
Prima di tutto però, torniamo all’aneddoto e -assumendo che esso riassuma in modo allegramente paradossale un’evoluzione realistica di un qualche sistema sociale o politico- vediamone le conseguenze. La prima è che tra X e W si è perso parecchio tempo, misurabile dalla preparazione degli studenti o dalle ricerche scientifiche intraprese. In realtà non è nemmeno garantito il fatto che si torni esattamente al punto di partenza: W potrebbe essere più geniale di X, ma anche molto meno. Non è difficile pensare che -mediamente- un sistema del genere degradi un po’ la sua qualità ad ogni ciclo, ovvero che W non raggiunga più le vette di X. La seconda conseguenza, meno evidente, è che gli allievi non selezionati si disperdono in giro; magari diventano professori da qualche parte, ed in genere maturano un rancore feroce verso la “scuola” di appartenenza, che non li ha valorizzati. Per brevità, chiamerò questo modello paradossale “ciclo di Fermi”, e lo intendo come un ciclo dissipativo di intelletti, speranze e risultati.
Bene: la mia impressione è che il centrosinistra italiano viva felicemente ed inconsapevolmente un ciclo di Fermi. E aggiungo che il continuo richiamo alla “vocazione maggioritaria” e al partito “contendibile”, di cui spesso si ragiona anche su Libertà Eguale, aiutano solo a peggiorare le cose.
Andiamo ai fatti. La genesi del PD seguiva un ragionamento apparentemente inattaccabile (e che mi ha convinto per anni). Poiché la società che guarda con interesse al mondo progressista è composita, un partito composito è la scelta migliore per essere “centrale” in una prospettiva di governo. Che vuol dire composito? Beh, è stato più volte evocato un PD costituito da due tipi di riformismo: uno più attento a questioni legate alla crescita e alla dinamica sociale ed un altro più legato alla redistribuzione e a contenere gli effetti negativi dell’economia di mercato. I due riformismi si dovrebbero ritrovare su temi unitari, come la difesa del modello occidentale in politica estera e l’estensione dei diritti civili. Esternamente, questo modello è stabilizzato dal sistema elettorale maggioritario (meglio se a doppio turno) e da regole interne (le primarie aperte che rendono il partito contendibile).
Funziona? Ha funzionato? Dipende da cosa guardiamo. Di sicuro il PD al governo del Paese ha fatto moltissime cose buone. Ma sono stati persi tanti elettori, sia nelle elezioni nazionali che alle primarie. E nessuno può affermare ragionevolmente che dal 2008 ad oggi siano migliorati sia il messaggio -sul piano della fattibilità reale di governo- che il professionismo politico. Inoltre, quasi tutti gli elettori fuggiti dal PD verso altri lidi o l’astensione hanno maturato un sordo rancore verso questo partito, colpevole -a loro modo di vedere- di aver tradito questa o quella linea politica. Insomma, le caratteristiche del ciclo di Fermi ci sono tutte. Sarà Schlein la scelta genialmente inconsapevole del popolo delle primarie che sovverte il decadimento del partito? Vedremo.
A distanza di 15 anni, tuttavia, qualcosa si può dire sull’approccio dall’alto che ha forgiato il PD. I padri fondatori, con arroganza tutta intellettuale, si sono dimenticati che i politici in larga parte vivono di politica. Nulla di disprezzabile, sia chiaro, ma inevitabilmente hanno una innata simpatia verso tutte quelle policies che sembrano massimizzare il benessere sociale in cui credono con la propria personale carriera. In sostanza, è assai reale il rischio che siano più follower (seguaci) dei conformismi di corrente o delle emozionalità che permeano la società, rispetto a ponderare con giudizio le idee ed esercitare leadership. Ho fatto politica e so quel che vuol dire.
Conseguenza di questa innata predisposizione è la tendenza di quasi tutti i politici alle dichiarazioni apodittiche, che prefigurano interventi legislativi risolutori dei problemi. La norma per sconfiggere la povertà; la diminuzione generale dell’orario di lavoro a parità di salario; la deducibilità dall’imponibile fiscale di tutte le spese; l’abolizione del precariato. I messaggi della destra sono quasi sempre gli stessi. Quelli della sinistra invece si devono adattare ai disagi contingenti della società, in una continua rincorsa dei lamenti sociali e della zeitgeist dominante a colpi di “si deve fare questa legge!” che non ammettono dubbi o discussioni, perché in ballo ci sono (apparentemente) i preziosissimi voti. La cosa è così paradossale che parecchi dirigenti del PD hanno attraversato senza un battito di ciglia stagioni politiche molto diverse, sostenendole sempre con estrema veemenza. A domanda sul tema, la risposta è che sono “i tempi che sono cambiati”, e che occorre adattare gli interventi legislativi ai bisogni delle persone, anche se si fanno contorsioni a 180 gradi.
Come è facile intuire, questo conformismo e trasformismo politico non risponde per nulla al meccanismo “adattativo” che gli intellettuali fondatori pensavano ponesse il PD sempre al centro della scena politica. Invece, ad ogni passaggio si ingenera sfiducia e sospetto nell’elettorato soltanto per non aver dato seguito ai tanti proclami sbandierati in piazza. Ricordiamo bene il processo mediatico/social al gruppo dirigente per non aver implementato lo ius soli o la legge Zan, quest’ultima col suo corredo di assertivi telepredicatori alla Fedez. E che dire dei famosi 101 franchi tiratori di Prodi e della ribellione di Occupy PD?
Schlein ha colto questo punto, ed infatti ha dichiarato che occorre una precisa identità politica, perché per compiacere tutti alla fine si scontentano tutti. Peccato che poi le ricette della neosegretaria, scritte nero su bianco nella sua mozione, siano un libro dei sogni di politica redistributiva che nulla ha a che fare con i meccanismi di funzionamento di un Paese occidentale. Sogni che, come al solito, vengono proclamati come a portata di mano per via legislativa diretta. Verrà anche per Schlein il momento del compromesso, e della presa d’atto che la realtà è una brutta bestia. I riformisti proveranno nuovamente a giocare le loro fiches, si genereranno nuovamente degli scontenti, e così via, in un infinito ciclo di Fermi al ribasso.
Dal punto di vista intellettuale e culturale non ci sono problemi a concepire un partito con punti di vista anche radicalmente diversi. Ma nella realtà politica questo è quasi impossibile. Non sentiremo mai il dirigente A del PD dire che ritiene il suo approccio politico “più adatto” alla situazione sociale di quello del dirigente B. A dirà che la soluzione dei problemi è quello che pensa lui. Le mozioni congressuali, per quello che valgono, non si sottopongono a fact-checking. Viviamo -come ci viene spiegato ad ogni piè sospinto- nell’epoca della comunicazione, e si è generato un partito con regole adatte ai caffè illuministi del 700. Il punto nodale è che non si può pensare ad un partito composito, abile ad esprimere una vocazione maggioritaria, senza che le parti di cui è composto si riferiscano a modelli sociali simili o senza che vi sia una camera di compensazione di qualche genere che eviti uno scontro interno tra due o più “partiti” separati. Alternativamente occorre una gabbia istituzionale come il sistema maggioritario inglese.
E quindi? Io penso che si debba accettare che la complessità non sia trattabile con i propri auspici, per quanto intellettualmente affascinanti. Churchill diceva che anche se la strategia è bellissima, ogni tanto un’occhiata ai risultati andrebbe data. Una giustapposizione di linee politiche, che legittimamente specchiano una società composita, ha sinora avuto come unico effetto la perdita progressiva di un potere attrattivo verso i cittadini, e il concomitante aumento del populismo di sinistra, alimentato dai tromboni mediatici che tuonano tutti i giorni sul PD traditore dei suoi elettori. Fortunatamente, l’attività di governo del PD è stata molto diversa dai proclami delle mozioni, come era logico che fosse. Ai difensori della vocazione maggioritaria tocca la responsabilità di dimostrare che l’esperimento PD non ha attivato un gigantesco ciclo di Fermi politico.
Finisco con una domanda umile: non sarebbe forse preferibile avere due o più partiti, che -ciascuno permeato da visioni politiche e sociali omogenee- cerchino in modo dinamico un compromesso per una positiva azione di governo, non rinunciando ad una sana competizione? Lo iato tra promesse e atti sarebbe meno ampio, e il ciclo illusione/disillusione molto meno distruttivo.
Laureato e dottorato in Chimica, è Professore associato di Biochimica all’Università di Pisa. E’ stato Research Fellow in USA, Francia e Olanda. Si occupa di processi biochimici alla base dello sviluppo dei tumori. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale