di Alberto De Bernardi
Come spesso accade per capire bene chi siano i vincitori di una campagna elettorale non valgono né le valutazioni a caldo degli opinionisti, che spesso fanno circolare i giudizi interessati di un giornalismo fortemente condizionato dalle affiliazioni politiche personali delle proprie testate, né i risultati di sondaggi estemporanei anch’essi fortemente condizionati dagli orientamenti di chi li elabora. Valgono invece molto di più i processi che si mettono in moto nei partiti e nei campi di forze intorno ai quali si struttura lo spazio politico.
A una settimana dal voto mi pare che si possano già individuare delle dinamiche politiche abbastanza evidenti, che revocano in dubbio il quadro complessivo delle aspettative e delle scelte che aveva dominato la campagna elettorale.
Salvini nel pallone
La prima dinamica riguarda il centro-destra che esce terremotato da questo turno elettorale nonostante abbia aggiunto una regione al suo carniere, Il voto infatti ha certificato la crisi profonda della leadership salviniana e il fallimento della strategia di FI di assecondare il populismo sovranista nella convinzione di raccogliere consenso nell’area moderata che ancora vota il cdx e di condizionarne gli indirizzi politici. Salvini è uscito malconcio dalle elezioni perché nell’era del Covid, che ha terremotato lo spazio pubblico mondiale, il sovranismo si rivela oggi un’ideologia perdente e inadeguata a raccogliere le paure delle classi medie impoverite: la pandemia chiama in causa la necessità di uno sguardo mondiale, di strumenti scientifici e medici di taglia planetaria, di strumentazioni economiche sovranazionali che esulano dall’armamentario isolazionista del nazionalismo sovranista. Questo approccio aveva funzionato quando il “nemico” era l’immigrato, lo straniero, per fare da involucro alla strategia dell’odio che il populismo su scala mondiale aveva propalato, postando la Lega salviniana a straordinarie performances di consenso. Ora il quadro è cambiato e Salvini non solo è sempre meno in sintonia con lo spirito pubblico, ma soprattutto manifesta limiti di leadership politica evidentissimi. Uscito dalla mitologia del Papeete, per la “mossa del cavallo” imposta da Renzi a un PD riluttante, che si stava suicidando per inseguire la Lega desiderosa di andare al voto, Salvini ha cominciato a perdere la lucidità necessaria per riuscire ancora a dettare l’agenda politica pur stando all’opposizione; e ora il partito gli sta esplodendo tra le mani.
Quel che resta del partito di Berlusconi
Ma di questa “crisi di egemonia” non è ha approfittato FI, che appare sempre più un partito residuale, che si consuma perché nessuno dei suoi capi, e men che meno Berlusconi, è in grado di fare la “mossa del cavallo” necessaria per interrompere il declino: l’attuale gruppo dirigente aveva cercato di “passare la nottata” sovranista, accucciandosi nell’orbita salviniana per garantirsi una sopravvivenza, che da dignitosa nel 2018 è progressivamente diventata sempre più misera e oggi rischia di evaporare irreversibilmente. Manca un federatore di quelle forze liberalconservatrici europeiste, dentro e fuori FI, che costituivano fino al 2011 la maggioranza della Casa della liberta: manca un Fini che di quel progetto si era fatto portatore partendo dalle sue origini neofasciste, ma venne travolto dagli scandali personali e da un conflitto perduto con Berlusconi stesso. Oggi non ce ne è un altro in grado di assumersi questo ruolo e l’unica che potrebbe forse farlo – Mara Carfagna – è paralizzata da una irrisolutezza che fa emergere tutti i suoi limiti di leadership. E molti dei vecchi elettori si sono collocati nella vastissima area del non voto – quasi la metà degli aventi diritto – in attesa di tempi migliori. In FI non ci sono dei Renzi o dei Calenda in grado di sparigliare le carte e ridare una prospettiva al partito fuori dallo schema del cdx, oggi del tutto superato.
Una vecchia destra che sembra nuova
Ne sta approfittando invece Fratelli d’ Italia che nel collasso del berlusconismo e del progetto finiano, aveva rappresentato la casa identitaria di quel che restava di Alleanza Nazionale rimasta nella Cdl e ostile al salto liberalconservatore. Progressivamente si è rivelata il contenitore politico di una destra più tradizionale – una sorta di Msi 2.0 – che ha diluito le sue eredità fasciste, con le quali si è rifiutata di fare i conti, in un sovranismo più nazionalista che populista, meno eversivo di quello di Salvini, più attento a non rompere tutti i rapporti con l’Europa Comunitaria – euroscettica ma non antieuropeista – sotto la guida di una giovane donna, politicamente più intelligente di Salvini e capace di federare tutte le vecchie anime del neofascismo italiano frammentate nella diaspora postfiniana. Dopo un decennio questo progetto sta raccogliendo i frutti e oggi da un lato è in grado di rappresentare gli elettori di destra che abbandonano la Lega ma anche il M5S, dall’altro di proporsi come forza politica guida di una destra che non più bisogno del centro per legittimare la propria ambizione a governare il paese. La nomina a presidente del partito dei conservatori e dei riformisti nel parlamento europeo sancisce il salto di qualità della Meloni, che ora assume il ruolo di un leader europeo, distante sia da FI che sta nel PPE, ma anche dalla Lega animatrice dell’ID (Identità e democrazia) che raccoglie il sovranismo antieuropeista radicale, dal partito della Le Pen a Alternativa per la Germania.
Il processo che dal 2018 ha portato il cdx a diventare destra oggi si è definitamente concluso e questo cambia radicalmente la geografia politica del paese con ricadute rilevanti sui progetti di riforma elettorale che oggi sono in discussione.
Il partito dell’onestà alla fine della storia
La seconda dinamica riguarda il M5S che ha sempre rappresentato un unicum nello scenario europeo: un movimento populista, giustizialista, antiscientista, anticasta, fortemente segnato da una visione antiglobalista e antieuropeista, ma non ideologicamente sovranista che ha raccolto molte adesioni anche a sinistra, per la sua proposta fortemente “rigeneratrice” e antisistema. Un coacervo identitario che però alla prima prove di governo si è rivelato non solo del tutto inadeguato a garantire la governabilità del paese, ma anche fortemente connotato da pulsioni di destra. Rapidamente ha disvelato ciò che erano già noto sol che si fosse guardato alla storia del populismo sudamericano: dietro parole d’ordine che richiamavano temi della giustizia sociale e della lotta ai privilegi della “politica” emergono rapidamente tendenze corporative e spinte antidemocratiche, volte ad una occupazione pervasiva del potere, combinate con politiche economiche dissipatorie e del tutto estranee alla crescita. Non è stato dunque un caso o un errore di percorso il governo giallo-verde (la circostanza che 5s e Lega siano ancora oggi contro il MES ne è conferma la più chiara conferma) rientrava pienamente di una fisiologia politica di parziale sovrapposizione tra populismo e sovranismo, che si è spezzata per un clamoroso abbaglio politico di Salvini che voleva capitalizzare la sua crescita nei consensi annunciata dai sondaggi, nella convinzione che non vi fossero alternative di governo praticabili, che invece si sono materializzate con la scelta di Renzi di proporre un governo di coalizione con il PD.
L’asino di buridano
L’avventura del governo rosso-giallo, seppur diretto dallo stesso Conte, si è rivelata molto più accidentata del previsto perché la valanga pandemica ha richiesto capacità di governo del tutto nuove e imprevedibili, sia sul versante sanitario che su quello economico e sociale. E la “mossa del cavallo” ha cominciato a scavare nel consenso dei 5s mentre metteva all’angolo il sovranismo muscolare del capo leghista. Nel giro di due anni il movimento del “vaffa”, che aveva avuto sorprendenti endorsement tra intellettuali di sinistra, uomini di spettacolo, giornalisti d’assalto, ma soprattutto nel gruppo dirigente del PD convinto che fosse il bosco nel quale si era nascosto il popolo di sinistra schifato da Renzi, è precipitato elettoralmente diventando una modesta terza forza, ma soprattutto è andato in frantumi perché sotto quel “vaffa” non c’era nulla e sopravvive grazie a quelle “poltrone” che si era immeritatamente guadagnato nel 2018.
Le elezioni hanno dunque fortemente ridimensionato l’anomalia italiana di una distinzione tra forze sovraniste di destra e forze populiste, segnate, come è nella norma, da coloriture di sinistra, facendo nei fatti ridimensionare le seconde che maggioritariamente sono ritornate nei loro naturali approdi di destra (Lega e FdI), mentre una minoranza è alla ricerca di una identità che l’aiuti a sopravvivere nel campo della sinistra nel quale è inevitabilmente destinata a sbriciolarsi, rafforzando e integrando le pulsioni populiste che da sempre l’attraversano: giustizialismo, assistenzialismo, antiindustrialismo, antiglobalismo, ambientalismo “infelice” sono già abbondantemente presenti nei partiti di sinistra e li si andranno al ricollocare quegli elettori e quei quadri politici che ora galleggiano nei meandri impazziti di un movimento arrivato alla fine del suo itinerario. Senza capi e progetti autentici la sfida tra ministerialisti e movimentisti non andrà oltre le pagine dei giornali e accompagnerà il cupo dissolvimento di una delle più drammatiche catastrofi della storia politica italiana.
I limiti della vittoria del Pd
Questo rimescolamento di forze e di idee nel cdx che le elezioni, ricade pesantemente sul csx, la cui vittoria, sancita dalla vulgata giornalistica, è assai meno robusta e chiara di quanto non sembri. Nonostante gli sforzi del Corriere e di Repubblica che per giorni hanno alternato interviste a Zingaretti, Bettini, Franceschini e ad altri dirigenti, il Pd non si è schiodato da quel 20% che ormai sembra un’asticella insuperabile, nonostante abbia praticamente riassorbito la scissione di Art1 e alla sua sinistra vi è un deserto piuttosto che un campo di forze. Inoltre governa una regione in meno: ormai anche le “regioni rosse” sono un ricordo dopo la sconfitta nell’Umbria e nelle Marche e nel sud le regioni in cui governa il csx sono debitrici più di poteri personali di natura notabilare, fortemente segnati dal populismo, piuttosto che della capacità di attrarre consenso dei partiti nazionali e in particolare del Pd, che esce fortemente ridimensionato in tutto il Mezzogiorno. L’unico dato confortante è rappresentato dalla vittoria in alcuni comuni della Lombardia, a conferma della crisi di egemonia della Lega, che diventa visibile anche nella sua regione più emblematica.
Il csx ha resistito dunque perché il suo avversario principale si e rivelato più debole del previsto e il suo alleato di governo ha perso consenso oltre ogni più pessimistica ipotesi.
“Che fare?”
Ma questo fenomeno fa vacillare la strategia del gruppo dirigente del Pd di sostituire il csx con l’alleanza demopopulista perché essa poteva trovare la sua unica giustificazione in un consolidamento della forza politica dei 5s o in un forte travaso di voti da questo movimento al Pd. Ma ciò non si e verificato. Invece è accaduto il contrario e la sconfitta sonante in Liguria testimonia che quella strada intrapresa con la “foto di Fermo” circa un anno fa non ha un effettivo futuro politico, nonostante lo sforzo di qualche altro dirigente del Pd di presentare il successo dell’alleanza a Pomigliano d’Arco come un parziale risarcimento del collasso genovese. In Liguria vince Toti e perdono sia il Pd che il M5s, trascinando il loro improbabile candidato in una disfatta autentica.
Il Pd si trova dunque a fare i conti con un progetto sostanzialmente fallito: dove ha vinto, il Pd lo ha fatto in una alleanza tradizionale di csx, aperta al civismo democratico e in molti casi moderato, che è il contrario di un’alleanza demopopulista segnata da un profilo marcatamente “di sinistra” e antiriformista.
Si apre dunque nel maggior partito del csx una fase nuova segnata da un gigantesco “che fare?” : fare valere nel governo lo iato crescente tra la forza elettorale della sinistra e i 5S rimodellando, senza abbandonare, la logica del “sacrifico” in nome dell’interesse superiore dell’ ”alleanza organica” (la prudenza sul MES di Gualtieri conferma questa scelta); oppure riscoprire il Pd come partito a vocazione maggioritaria, abbandonata da Zingaretti, che si pone l’obbiettivo di costruire un csx a egemonia riformista, chiudendo l’infausta parantesi del Pd ritornato ad essere una brutta riedizione dei DS? (la candidatura di Calenda a sindaco di Roma, sarebbe un segnale inequivoco in questa direzione) Questo quesito prima delle elezioni era un controsenso o un’operazione velleitaria di sparute minoranze: ora invece si conferma come il nodo cruciale per il futuro del Pd.
Una start-up alle prime mosse
In quest’area ha fatto le sue prime mosse Italia Viva. Bollata subito come un flop da una stampa fin troppo interessata a cui il gruppo dirigente del nuovo partito ha risposto con toni spesso fuori misura, la presenza elettorale della creatura di Renzi merita un analisi più approfondita. In un prova elettorale caratterizzata da sistemi elettorali maggioritari, e quindi sfavorevoli per una forza piccola e nuova, aver superato il 5% non è poco e piò costituire un punto di partenza insperato, al di la dei sogli a due cifre alimentate dallo stesso senatore di Rignano. Ciò non toglie che, soprattutto, nel Mezzogiorno le due cifre siano comparse in qualche elezione comunale e in qualche circoscrizione, garantendo complessivamente l’elezione di un certo numero di amministratori locali.
La “start-up” è dunque nata e negarlo appartiene più al novero di pii desideri fin troppo interessati, ma molti problemi restano e dalla loro soluzione dipende il suo futuro fino alle fatidiche elezioni del 2023.
Innanzitutto va sottolineato che i risultati più convincenti, tranne il caso di Enna, si siano verificati quando IV si è presentata in compagini di csx, mentre operazioni “in solitaria”, come in Liguria e in Puglia, siano state pesantemente sconfitte. I suoi elettori percepiscono dunque questo partito come una gamba del csx, e non come una forza di centro, che si colloca in un limbo politico tra cdx e csx. Allora diventa fondamentale definire come IV debba stare nel csx, per evitare tornare ad essere una sorta di Margherita 2.0. come vorrebbero Bettini e compagni. Per farlo deve esaltare il suo profilo riformista ma questa scelta presuppone affrontare oggi dopo due crisi devastanti, una economica e l’altra sanitaria, che cosa sia il riformismo: è una riedizione della “terza via” tra socialismo e neoliberismo, tra destra e sinistra di fine XX secolo, oppure è uno sforzo per ripensare libertà ed eguaglianza nell’epoca della quarta rivoluzione industriale e dei dilemmi ambientali, oltre ogni logica di “giusto mezzo”, perché socialismo e neoliberismo appartengono al passato.
La sconfitta pugliese mette in luce poi che la creazione di un’area riformista con +Europa, Azione, socialisti non è il naturale sbocco per forze politiche che pure hanno molti punti di contato politici e ideali se questo non viene esplicitamente assunto come progetto politico comune: questo fino ad ora non è successo e per ora la Puglia non è stata il laboratorio di questa prospettiva. Si è persa un’occasione, ma se ne presentano già ora altre (le elezioni comunali delle grandi città tra pochi mesi) nelle quali chi vuole assumere la leadership di questo campo di forze è chiamato a esprimersi chiaramente. Altrimenti anche IV come molte start-up è destinata ad esaurirsi.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019