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Danilo Di Matteo

 

Il Pci delle donne: non mi esprimo così per galanteria, no. È che sono cresciuto (erano gli anni Ottanta) guardando al Pci di Nilde Iotti, insieme dolce e austera, di Lalla Trupia, di Giglia Tedesco, di Maria Lisa Cinciari Rodano, di Livia Turco, di Franca Chiaromonte, di Luciana Castellina, di Claudia Mancina, di Gloria Buffo, di Aureliana Alberici e di altre. Senza tacere su una figura della levatura di Lidia Menapace. E come dimenticare il volto e la voce tremolante e decisa di Camilla Ravera, senatrice a vita quasi centenaria, mentre pronunciava un breve discorso in Parlamento senza leggerlo, dando semplicemente uno sguardo a qualche appunto, grazie a una lente d’ingrandimento?

Mi riesce dunque difficile scrivere in poche righe del libro di una di loro, Livia Turco: Compagne. Una storia al femminile del Partito comunista italiano (Donzelli, Roma 2022, pp. 195, € 19). Se potessi, lo citerei per intero.

 

 

E non posso non notare come quella fosse una fucina di riformismo. Ecco un modo per distinguere tale vocabolo (e tale concetto) da quelli di tecnocrazia e di élite.

Già il 21 gennaio 1921, a Livorno, con il Partito comunista d’Italia nascono le “quote rosa” ante litteram. Ascoltiamo un frammento del primo documento ufficiale del movimento femminile comunista: si “è presa la determinazione di chiedere che in ogni sezione dove ci siano le donne comuniste, una di esse faccia possibilmente parte del comitato esecutivo. Si sono impegnati i nostri giornali a mettere a disposizione della propaganda femminile qualche colonna”. Vi era stata prima, naturalmente, un’intensa gestazione, specie grazie al settimanale L’Ordine Nuovo, nato il primo maggio 1919 “su iniziativa di Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti”, e diretto da Antonio Gramsci. Attorno a esso “si era costituito un gruppo di donne che diventeranno parte della nuova dirigenza del Pcd’I, impegnate soprattutto nella lotta e nell’organizzazione clandestina e poi nella Resistenza. Si tratta di Camilla Ravera, Teresa Noce, Rita Montagnana, Rina Picolato, Pia Carena”. Teresa Noce, ad esempio, ricordava che quando Gramsci “andava in casa dei compagni, andava in cucina, e quel poco che sapeva fare – asciugare i piatti – lo faceva. E intanto chiacchierava, perché non era d’accordo che i nostri compagni non cercassero di parlare con le mogli”. E Camilla Ravera, dal canto suo, sempre in riferimento a Gramsci, non dimenticava che “eravamo nel suo studio; io gli parlavo dei problemi dell’emancipazione della donna, del partito. Lui m’interruppe e disse: ‘Sulla questione femminile gratta gratta un comunista e anche lì ne viene fuori un reazionario’”.

Emancipazione, dunque, liberazione e, già da allora, riconoscimento del valore della differenza, come dimostra un articolo del marzo 1921, intitolato Il nostro femminismo, scritto proprio da Camilla Ravera (perdonatemi, ma, citando i nomi delle compagne, non riesco a limitarmi al cognome): “Liberati, l’uomo e la donna, da ogni servitù economica, posti nella possibilità di scegliere quella specie di produzione verso cui si sentono più attratti e della quale si riconoscono più capaci, restituita a entrambi la vera libertà di fronte alla loro natura, l’uno e l’altra potranno cooperare insieme ed intensificare, arricchire, abbellire la vita dell’umanità”. E ancora, a proposito della tutela della maternità: “La donna madre non deve perdere il diritto alla sua indipendenza economica, e tuttavia la madre, secondo noi, almeno per il primo anno di vita, deve poter rivolgere tutte le sue attività all’allevamento e alle cure del bambino”. “E infine la questione della famiglia. La costituzione della famiglia in una società comunista subirà certamente delle grandi modificazioni ma la famiglia non può essere abolita”. Quanto di più lontano possa esservi dai “casermoni-collegio” sovietici!

Purtroppo non vi è stato solo il Pci delle donne, anzi. Il “grande partito” conosce e subisce una pesante impronta patriarcale e bigotta, volta a reprimere il sentimento e a mortificare la dignità soprattutto delle donne. Eloquenti restano, tra le altre, le vicende di Teresa Mattei e di Teresa Noce.

Da acrobati del tempo e della storia, approdiamo al 24 maggio 1986, quando “il femminismo romano indisse una manifestazione, durante la quale Alessandra Bocchetti propose a tutte le donne”, comprese quelle della politica, un “patto di coscienza”. “Partecipai a quella manifestazione – scrive Livia Turco –, sollecitata in modo particolare da Franca Chiaromonte e da altre compagne femministe, e vi colsi la possibilità di costruire quel patto tra donne che già eravamo venute maturando”. E nel luglio dello stesso anno venne promosso un convegno – Dopo Černobyl’: scienza, potere, coscienza del limite – dal quale emerse “un nuovo paradigma culturale e politico”: “la coscienza del limite”, appunto. “Cioè ‘la cura della vita’, scegliere come riferimento il primato della vita e la sua integrazione con l’ambiente”. L’autrice, nutrita anche di una fede religiosa vissuta con discrezione e rispetto per tutti, non manca qui di sottolineare l’attualità di quell’approccio, al tempo del Covid e del conflitto sanguinoso in Ucraina. Cura della vita comprendente naturalmente la vita delle donne, tutelata da una legge come quella sull’interruzione volontaria di gravidanza. “In preparazione dell’incontro – ella prosegue – fu stilato un documento, a firma Gloria Buffo, Maria Luisa Boccia, Anna Maria Carloni, Franca Chiaromonte, Marcella Ferrara, Grazia Leonardi, Marina Rossanda, Marisa Valagussa: ‘È tempo ormai che assumiamo attivamente, come punto di vista della differenza sessuale, l’essere estranee delle donne alle modalità, alle regole, ai valori dominanti. L’estraneità ha rappresentato storicamente non solo l’esclusione di cui le donne erano fatte oggetto, ma la loro più o meno consapevole resistenza, non appartenenza, alla logica dominante, al codice del dominio’”. E dunque: “Da quando è ovvio pensare che esista un solo modo di produrre e di usare le risorse? Perché prima ancora di ipotizzare un uso alternativo delle tecnologie, non possiamo pensare a un’alternativa tra le tecnologie?”. E ancora: “Da tecniche di sussidio della procreazione, la moderna ingegneria genetica si va spostando verso tecniche che sottraggono, in forme pressoché totali, la procreazione alla relazione tra le persone”. Insomma: non vi sono, non dovrebbero esservi temi-tabù.

E che dire della rivista di riflessione, di ricerca e di approfondimento teorico al femminile Reti, erede della storica testata Donne e Politica? Reti tra donne diverse, espressione di mondi diversi: Maria Luisa Boccia, Ornella Barra, Gloria Buffo, Silvana Dameri, Ida Dominijanni, Elisabetta Donini, Paola Gaiotti de Biase, Claudia Mancina, Adele Pesce, Rossana Rossanda, Chiara Saraceno, Giglia Tedesco, Silvia Vegetti Finzi, la stessa Livia Turco. Come dire: accanto alla differenza delle donne, si pone quella fra le donne.

E poi l’autrice non dimentica il ruolo e le elaborazioni delle donne del Pds, dei Ds, del Pd: da Francesca Izzo a Barbara Pollastrini a Vittoria Franco.

E, a proposito del contributo di pensiero, delle acquisizioni politiche, del riformismo al femminile, non sottolineeremo mai abbastanza il rilievo della questione del tempo, dei tempi. Tempi di lavoro, tempo per sé o per la famiglia, tempo per le idee e la creatività. Sempre più la nostra ricchezza e la nostra povertà si misureranno, infatti, in termini di tempo davvero a nostra disposizione.

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