di Andrea Romano
Visto in prospettiva storica – e al netto delle schermaglie di breve e medio periodo nelle quali siamo tutti coinvolti – quanto è accaduto nella sinistra italiana tra il 2013 e il 2018 ha contorni clamorosi.
Il riformismo e Renzi: un incontro storico
Una piattaforma che in sintesi estrema possiamo chiamare “riformista” è uscita dai confini del minoritarismo dentro i quali aveva vissuto decenni di nobile isolamento, durante i quali si era dedicata alla studio e alla pratica del realismo politico, per imporsi in termini egemonici nell’agenda della sinistra di governo.
Un passaggio di valore storico, per l’appunto, avvenuto grazie all’incontro tra quell’agenda e una leadership personale (quella di Matteo Renzi) che ha declinato in italiano i tratti del “populismo democratico” che negli anni precedenti erano già stati di personalità politiche altrettanto innovative come Bill Clinton e Tony Blair.
La sintesi tra i contenuti di quell’agenda e le potenzialità comunicative di quella personalità ha prodotto uno scatto di innovazione quale la sinistra italiana non frequentava più almeno dalla fine degli anni Sessanta, traducendosi in due risultati più importanti degli altri.
Innovazione e cultura di governo
In primo luogo l’ispirazione per una stagione di governo orientata alla crescita economica, al superamento dei corporativismi, a nuovi diritti civili e nuove forme di protezione sociale.
In secondo luogo una profonda trasformazione dello stesso Partito Democratico: o meglio, una trasformazione della cultura condivisa dalla gran parte della comunità PD (che nella sua ampia maggioranza ha fatto propria quell’ispirazione di governo, facendone una nuova cultura comune capace di riassumere e superare le “diversità originarie” che si erano unite dieci anni prima all’atto di fondazione del nuovo partito) e una trasformazione degli obiettivi elettorali del PD (che dai confini identitari di un mitologico e vagamente tribale “popolo di sinistra” si sono allargati fino ad includere idealmente tutti gli italiani, di qualunque convinzione o sensibilità politica precedente).
Tutelare un patrimonio condiviso
Due risultati che dovrebbero essere tenuti a mente soprattutto oggi, all’avvio di una stagione congressuale che muove dalla pesante sconfitta del 4 marzo e che ha piena legittimità per discutere ed eventualmente imprimere al PD una radicale correzione di rotta rispetto a quanto è accaduto negli ultimi anni.
I risultati storici di questa stagione, infatti, rappresentano un patrimonio condiviso la cui eventuale archiviazione (o frammentazione per vie ereditarie, o dispersione per vie di abbandono del campo) dovrebbe essere valutata con estrema attenzione dai gruppi dirigenti che hanno già oggi la responsabilità di gestire un passaggio esiziale per il futuro della sinistra di governo italiana.
Di questo patrimonio di innovazione i gruppi dirigenti del PD sono infatti custodi, piuttosto che proprietari. E in quanto custodi sono tenuti in primo luogo ad esercitare il criterio della “responsabilità del buon padre di famiglia” verso un capitale culturale il cui valore dovrebbe essere protetto e consolidato in vista degli appuntamenti che attendono sia la nostra comunità politica sia la nostra nazione.
Non c’è ritorno ad una fantasiosa “età dell’oro” della sinistra
In questo senso, il cambiamento profondo (e forse irreversibile) avvenuto in questi anni nella cultura condivisa dalla comunità del PD non dovrebbe essere confuso con l’auspicio di alcuni dirigenti di chiudere la parentesi dell’egemonia riformista per tornare ad una fantasiosa “età dell’oro” della sinistra italiana.
Un auspicio legittimo per una battaglia politica altrettanto legittima, ma che tuttavia non può essere attribuito ad un Partito Democratico che – nel suo essere comunità politica e non solo somma di dirigenti – è e rimane la casa dei riformisti italiani e lo strumento principale (se non unico) sia per la difesa dell’Italia dal destino di isolamento e declino a cui vorrebbero condannarla i sovranisti sia per la traduzione concreta di quei valori di libertà e progresso che ci identificano.
Pd: c’è ancora tanto da fare
Da questo punto di vista moltissimo rimane da fare proprio per fare del PD quell’istituzione politica efficace ed efficiente che negli anni del governo, travolti da un’urgenza delle riforme che non ammetteva soste, abbiamo inevitabilmente trascurato.
Un lavoro da svolgersi “in tempo di pace”, e dunque nelle condizioni di opposizione nelle quali ci troviamo, ma i cui risultati saranno fondamentali per farci trovare pronti all’appuntamento della prossima stagione di governo.
Senza la frenesia di trovare la scorciatoia politicistica più breve per strappare un posticino al tavolo di un eventuale nuovo esecutivo che nascesse dalla crisi interna della maggioranza gialloverde, ma lavorando già ora dentro il congresso del PD per difendere e consolidare un patrimonio di innovazione politica riformista che appartiene a tutta la sinistra italiana.
E che ha permesso proprio alla nostra casa politica, anche nella sconfitta gravissima del 4 marzo, di non conoscere lo stesso destino di quasi-estinzione vissuto da altre e persino più gloriose sinistre europee.
Belle parole sono quelle di Romano, ma sono un auspicio privo di reali contenuti. Andrea Romano si guarda bene da darci un concreto riscontro sulle reali forze in campo all’interno del PD. Ne prova a tradurre il suo auspicio in atti concreti e determinanti a qualificare chi sono e cosa vogliono i riformisti. Come le ha esposte siamo tutti d’accordo. Pertanto non servono a niente.