di Claudia Mancina
Le primarie ci hanno dimostrato che il Pd è vivo e che esiste una società disponibile a riprendere l’impegno politico
Le primarie hanno mandato un messaggio che non può essere ignorato, anche da chi, come me, non ha votato Zingaretti. Anzitutto, com’è evidente, una richiesta di unità; ma insieme anche una richiesta di leadership.
Spazzando via tutti gli arzigogoli giornalistici (e non solo) sulla possibilità che nessuno superasse la soglia del 50%, gli elettori democratici hanno chiaramente scelto di avere un segretario pienamente legittimato, in grado di guidare in autonomia il partito.
A questo punto non ha più senso parlare di derenzianizzazione o di ritorno indietro: si tratta di temi superati, che si riferivano a una fase di ripiegamento.
Il Pd è vivo
Quello che abbiamo di fronte oggi è un momento certamente di transizione, ma ricco di opportunità e di potenzialità, sulla base del fatto incontestabile che il Pd è vivo e che esiste una società disponibile a riprendere l’impegno politico. Tocca al nuovo segretario non accodarsi a chi vuole la restaurazione, ma ricostruire la credibilità del partito e la sua capacità di porsi come terminale di questa disponibilità.
Le sue prime mosse sono state significative, come il viaggio a Torino, che non è solo una presa di posizione a favore del TAV ma anche un modo di dire che il Pd è nei territori, là dove si combatte una difficile sfida elettorale e culturale.
Poi certamente la nuova fase è una pagina bianca, e bisogna evitare, da una parte e dall’altra, di riempirla con pure ripetizioni del passato.
Tutto da costruire
Le primarie hanno anche ridimensionato il tema delle alleanze, nel quale troppo spesso affonda il dibattito nel e sul Pd. E hanno rimesso all’ordine del giorno il tema troppo facilmente demonizzato della cosiddetta vocazione maggioritaria, che non è da intendere come una presunzione di arroganza e autosufficienza, ma come la naturale e legittima ambizione del maggior partito di opposizione a proporre un progetto politico al paese, e a partire da quello cercare le possibili alleanze.
Da qui in poi, è tutto da costruire. E’ chiaro che si deve partire dall’azione dei governi Renzi e Gentiloni, e anche dall’aggiustamento strategico che è evidentemente necessario, a meno che non vogliamo considerare la sconfitta del 4 marzo soltanto come effetto delle lacerazioni interne e degli attacchi mediatici. Qualcosa non è andato nel rapporto tra il Pd e gli elettori, nonostante le tante cose buone fatte, e se non si parte da questa consapevolezza non si va da nessuna parte.
Il nuovo segretario, se vuole tenere unito il partito, se vuole farlo crescere, deve trovare una via originale tra l’abiura e la fedeltà dogmatica.
Escludere qualunque possibilità di un governo con i 5stelle, come Zingaretti ha fatto, significa accettare la responsabilità di disegnare un percorso autonomo, un percorso di medio periodo che porti possibilmente a vincere, ma intanto a rimettere radici.
Prendersi cura del partito
Questo vuol dire elaborare delle proposte che consentano finalmente di fare una vera opposizione, evitando di imitare atteggiamenti populisti. Ma è anche necessario e urgente mettere mano al partito, prendersene cura, probabilmente anche rivedere alcuni punti dello statuto, senza tabù. Prendiamo il caso delle primarie aperte, messe impietosamente sotto accusa in un libro molto severo ma tuttavia da leggere (Antonio Floridia, Un partito sbagliato, 2019).
Le primarie non dovevano essere solo una apertura democratica fine a se stessa. Le primarie dovevano essere l’inizio e l’ossatura di una nuova modalità della politica di partito, di una nuova forma-partito come si diceva una volta.
Ma questo sarebbe stato possibile solo se gli elenchi dei votanti fossero stati utilizzati per costruire delle reti di comunicazione tra partito ed elettori. Questo non è stato fatto e anzi gli elenchi non sono mai stati disponibili.
Detto ciò, le primarie non sono un articolo di fede: per esempio, è mia convinzione che ne venga fatto un uso troppo ampio e che dovrebbero essere limitate alla scelta di cariche di governo, come il segretario-candidato premier e i candidati sindaci e presidenti di regione.
In ogni caso, una discussione seria sul partito va aperta. La società è liquida, si dice, la politica ancora di più, i processi sono veloci e tutto, vittorie e sconfitte, è diventato volatile. E se fosse invece una incapacità soggettiva dei partiti a rendere così volatili i consensi, se ci fosse una domanda di solidità a cui non si sa rispondere?
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)