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Il Pd minoritario, dalla ‘ditta’ alla ‘bottega’

Alberto De Bernardi martedì 18 Dicembre 2018
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di Alberto De Bernardi

 

Tra ieri e oggi sono avvenuti tre eventi che mettono in luce, ancor più di quanto fosse già evidente, quale sia la vera partita che si sta giocando nel congresso del Pd.

Si tratta del convengo di ItalianiEuropei nel quale D’Alema ha raccolto uno stuolo di personalità della sinistra  storica, dalla Boldrini a Vendola, a Bassolino, a Cuperlo; dell’intervista a Bersani che si è dichiarato disponibile a spingere per la creazione di un nuovo soggetto della cosiddetta “sinistra di governo”; l’intervista al filosofo Cacciari, che con la brutalità da uomo di talk show – non dimentichiamoci che Martina lo aveva invitato alla Conferenza programmatica di qualche settimana fa –  ha spiegato che il congresso sia una finzione e che Martina e Zingaretti si devono mettere d’accordo per rifondare il Pd tornando a prima del Lingotto, sulla base di una non meglio precisata proposta di partito federale che un quindicennio fa aveva fatto lui insieme a un gruppo di dirigenti del Pds/Ds; se poi Renzi si fa un suo partito “centrista” meglio ancora. Inoltre, da una settimana il filozingarettismo del “partito di Repubbica” ha incrementato l’assalto a Renzi, al cosiddetto “giglio magico” con le inchieste farlocche dell’Espresso sul fratello della Boschi, con l’assalto ad personam di un gruppo di politologi in servizio permanente attivo, con gli sproloqui dei giornalisti di partito capeggiati da Giannini.

E’ del tutto evidente che questa accelerazione risponde a un ben preciso disegno che era già chiaro a poche ore dalle elezione di marzo: fare del Pd la stampella a un governo 5s attraverso il quale prendere due piccioni con una fava: tentare o meglio presumere di “romanizzare i barbari” e renderli uno strumento seppur ancora  indocile per consentire agli anfitrioni di un sinistrismo da salotto di poter continuare a pontificare sul futuro del paese e mantenere solidi agganci con i centri del potere politico. Sognano di rifare quello che Croce e Albertini pensavano  di fare con Mussolini: usarlo, guidarlo, integrarlo e poi metterlo da parte…si è visto come è andata a finire.   

 

Il ritorno di un vecchio ceto politico

Si staglia un’amalgama ideologico e di politique politicienne nel quale confluiscono il ministerialismo,  proprio di un vecchio ceto politico ex comunista e ex democristiano aduso da due decenni a stare nella “stanza dei bottoni”,  gli interessi editoriali ed economici che da  sempre sono cresciuti in un rapporto simbiotico con la politica, la  vanagloria di un gruppo di intellettuali di sinistra – ma non solo,  basti pensare a Prodi – che non vuole rinunciare, a dispetto di tutti i fallimenti e degli anni, di svolgere un ruolo di maitres à penser, parlandosi addosso dai circuiti televisivi, dalle “feste delle idee”, dalle presentazioni di libri che scrivono (o fanno scrivere) solo per poterli presentare e alimentare il circuito autoreferenziale nel quale sopravvivono; ma anche esprime la forza di un richiamo ricorrente di natura massimalista, populista, giustizialista, presente in quel campo di forze, che può non solo riagglutinare ciò che si è mosso alla sinistra del Pd con quello che ha continuato a militare al suo interno  – la figura amletica e patetica di Cuperlo ne è l’emblema più significativo – ma costituire il terreno d’incontro programmatico e ideale con la “sinistra” del M5S.

Queste forze e questi gruppi, seppur con attori diversi e in un contesto diverso, sono gli stessi che per un decennio, sempre in nome della sinistra, hanno rallentato la nascita del Pd, che con Bersani e D’Alema, hanno cercato di ucciderlo in culla e che per un quinquennio hanno costruito una massa d’urto sempre più forte per affossare il riformismo europeista di Renzi e della maggioranza dei militanti del Pd. Nonostante siano andati a sbattere in tutta Europa e siano anche in Italia in via di estinzione, utilizzando la  sconfitta elettorale del Pd, di cui sono pienamente corresponsabili, si ripropongono di riprendere il controllo del partito,  utilizzando questo vasto fronte interno ed esterno, dopo che da due congressi consecutivi erano usciti con le ossa rotte.

Ora nonostante l’atteggiamento di superiorità messo in campo verso un dibattito congressuale spacciato come inutile o tattico, queste forze sono assolutamente consapevoli che invece la partita è decisiva: è come un’ultima chiamata; ora o mai più. L’attivismo di D’Alema ne è il sintomo e il simbolo al tempo stesso, mettendo in luce chi sono i veri padrini dell’operazione Zingaretti: un burocrate di partito – una specie di riedizione  di Bettini al tempo di Veltroni –  uscito da una sconfitta elettorale peggiore di quella di Renzi, che governa il Lazio con l’appoggio di due esponenti di estrema destra e in un dialogo fitto con la Raggi pensa di fare di quella regione il laboratorio dell’alleanza rosso-gialla, che però può tornare utile però a raccogliere dentro e fuori il Pd tutte quelle forze che non sono in grado di pensare la sinistra al di fuori dell’estenuata tradizione del Pci e del suo massimo tentativo di rinnovamento  rappresentato dai Ds.

 

Una ‘cosa’ casereccia

Dentro questo mondo c’è ovviamente di tutto: dai “mélenchoniani” alla Fassina, dai pansindacalisti massimalisti alla Camusso e Landini, dagli ultimi togliattiani alla D’Alema e Cuperlo, dagli eredi del prodismo ulivista, fino a cacicchi meridionali alla  Bassolino e Emiliano: un impasto che è lontano mille miglia da quel riformismo europeista che in virtù di una leadeship molto forze e di una elaborazione culturale restata per quasi un decennio ai margini dei processi di organizzazione politica del centrosinistra, è riuscita nell’impresa di assumere la guida del Pd,  e cercare di farne quello che era implicito nella sua stessa nascita,  e di conquistare il governo del paese. Si tratta di un’aggregazione che in Europa ha ben pochi referenti che non siano un’estrema sinistra minoritaria, assai poco europeista come Corbyn, che è il loro massimo punto di riferimento, assai poco riformista come la Linke tedesca e che fatica a dialogare con quel che resta della socialdemocrazia europea, che ha solo nella penisola iberica una sua effettiva consistenza politica; una “cosa” casereccia di cui D’Alema sarebbe la testa pensante,  Zingaretti il presunto leader e Bettini l’organizzatore occulto.

Infatti il fiasco di Leu ha messo in luce che non c’è nulla alla sinistra del Pd, non ci sono praterie elettorali, non ci sono foreste dove andare a rintracciare i delusi del Pd ivi nascosti. Per rifare i Ds e ritornare a “socialismo” che hanno in testa Bersani e Rossi è indispensabile  reimpossessarsi del Pd, non importa se rimpicciolito e ridimensionato  da una inevitabile fuoriuscita di Renzi e dei riformisti. Meglio pochi – un po’ come i massimalisti degli anni venti che espulsero Turati e Matteotti, che volevano fare un governo con Giolitti per combattere il fascismo incipiente, in nome di una alleanza con l’appena nato Pcd’I per fare la rivoluzione – ma coesi attorno all’unica idea di cui dispongono: allearsi con il populismo per fermare la destra parafascista di Salvini. In sintesi, un’operazione “grande LeU”.

 

Perché no ad un’alleanza con il M5S

Da più parti è stato scritto, a ragione,  che si tratta di una analisi sbagliata perché il M5S non sta a sinistra, ma rappresenta solo la variante “di sinistra” del populismo che è un movimento di destra: un po’ come confondere la sinistra fascista,  che c’era nel movimento e nel sistema totalitario, con la sinistra degli esuli e dei carcerati. Così come risulta evidente che un’operazione di questo genere rimodellerebbe il sistema politico attorno al dominio assoluto del populismo che occuperebbe con il “fichismo” il campo  della sinistra, con la stampella  subalterna e ininfluente del Pd, e con il “salvinismo”  il campo della destra con una Fi ancora più ancillare e marginale. Un capolavoro politico da cui la sinistra non si risolleverebbe più per molto tempo, ma che rimarrebbe quella che quest’area ha sempre pensato: una forza minoritaria che si deve alleare con qualche altro per sedersi al governo del paese.

Si tratta dunque di una operazione sbagliata e vecchia,  costruita su un rinculo ideologico a prima del 2008,  che distrugge il Pd e la sua novità politica: ma nelle intenzioni dei proponenti salva un perimetro politico, politicamente ininfluente, ma in grado di garantire al un ceto di professionisti della politica non solo degli stipendi, ma anche uno spazio politico-culturale tanto più apparentemente grande, quanto più condito dalla boria del suo ceto di intellettuali al seguito; salva dunque l’identità di una generazione di ex comunisti e di ex democristiani, molto di più di quanto non accadrebbe se il progetto liberalprogressista di Renzi andasse avanti e venisse percepito come effettiva e unica alternativa al populismo.  Farebbero la fine di Marchais e del Pcf al tempo di Mitterand, quando emerse in modo chiaro che quella tradizione politica non aveva più nulla da dire, né da dare.

 

Molti dubbi sui candidati

Se è chiaro cosa si sta muovendo nelle effettive dinamiche congressuali attorno alla candidatura di Zingaretti, cosa voglia rappresentare Martina per ora è assai poco chiaro. Martina è l’uomo sbagliato nel posto sbagliato: essendo vicesegretario del Pd, quindi corresponsabile come Renzi della sconfitta del 4 marzo, dopo la reggenza, fin troppo lunga, doveva farsi da parte. Invece finge un nuovismo inconsistente (si è fatto persino fatto crescere la barba per sembrare un’altra persona): dopo avere chiesto anche lui scusa degli errori del passato, che lui stesso ha prodotto e rappresentato il progetto proposto è confuso, perché cerca di collocarsi in uno spazio mediano tra il riformismo “alla Renzi” e il progetto di restaurazione diessina proposto da Zingaretti, senza dire né attorno a chi e a cosa si struttura, né perché è necessario stare in mezzo… Per ora si è vista una serie di proposte scriteriate: la patrimoniale, un “antirenzismo” di maniera, un’incertezza sulle alleanze, una visione del partito vecchia scuola. Inoltre, ed è la cosa più grave, anche Martina continua a ripetere che il nemico è la “destra” e non il populismo sovranista che ingloba anche il M5S. Insomma uno “zingarettismo dal volto umano” poco convincente perché in politica le “copie” hanno sempre poca fortuna. Inoltre una candidatura senza effettiva offerta politica, perché senza l’alleanza con i 5S, il “martinismo” è senza proposta. Hanno ragione dunque quanti, da Cacciari in giù, ipotizzino un’alleanza tra i due cui ricostruire l’unità del Pd: ma di un Pd già fortemente connotato in senso antiformista, già  pienamente rinculato nel quale gli è riservato il ruolo dell’opposizione di sua maestà.

Mi spiace di non condividere la scelta di quanti di noi hanno deciso di sostenere Martina in quanto “male minore” o per “salvare il salvabile”: nonostante l’onestà degli intenti e la buona fede mi sembra una operazione dal fiato cortissimo perché l’opposizione alla restaurazione dalemian-zingarettiana non si fa mettendosi a cuccia nelle retrovie, sperando di condizionare un “front man” che non è un leader politico, non ha spessore strategico e al di la dell’evocazione delle periferie e dei circoli non ha messo in campo nessuna idea-forza in grado di definire una proposta alternativa: anche lui è un figlio di Bersani e li ritorna, inevitabilmente. Chi ha fatto questa scelta ha una sola effettiva via d’uscita: definire una piattaforma politica chiara e pubblica sulla base della quale vincolare quel sostegno, dal “sen fuggito”: se non compare in fretta l’operazione si configura come un operazione opaca, verticistica e destinata a non aver nessun esito.

Alla base di questo manifesto ci dovrebbe essere la delineazione dell’alternativa al progetto restauratorio che nel momento in cui esclude l’alleanza con i 5S, individua il suo baricentro nella creazione di un fronte progressista, riformista, liberalsocialista, di orizzonte europeo, che si proponga di aggregare un vasto campo di forze che vada da Bentivogli, Calenda, Bonino fino ai liberal-moderati che stanno in Forza Italia, ai membri del cosiddetto “partito del Pil”,  alle “madamine” torinesi tanto disprezzate da Zagrebelsky. Un fronte che faccia del riformismo dei governo Renzi-Gentiloni il perno per definire una strategia alternativa al populismo. Le Tesi di Libertàeguale sono già una canovaccio programmatico assai utile, se qualcuno decidesse dopo averlo elaborato di utilizzarlo politicamente. Ma Martina su tutto ciò non ha ancora detto nulla. Speriamo che chi ha deciso di sostenerlo lo aiuti a decidere per il meglio.

 

Liberi tutti

Quello è il progetto cui stanno lavorando Renzi e Calenda, ognuno dal suo punto di vista, che sta dentro e fuori il Pd, ma di cui dovrebbe costituire l’asse portante, se ovviamente non vince D’Alema; esso  costituisce il nucleo politico e ideale di una proposta progressista e democratica che va poi riempita di nuovi contenuti programmatici orientati alla scala effettiva su cui si gioca lo scontro politico anche in Italia, cioè l’Europa:  la vicenda dei gillet jaunes definisce le vere discriminanti su cui ridefinire ciò che è di destra e ciò che è di sinistra, ciò che appartiene al campo della democrazia liberale e ciò che appartiene a quello populista.

Dentro le dinamiche congressuali cosi definite, solo la candidatura di Giachetti-Ascani tiene desta effettivamente questa prospettiva. E’ poco; è un’operazione maturata in fretta, non è sorretta da un forte apparato di partito, ma è l’unica cosa che c’è per contrastare la restaurazione della “Ditta” – e neanche quella dei fasti bersaniani, ma una piccola  bottega antiriformista – e il ritorno dei suoi attempati demiurghi; e che si può in queste settimane rafforzare per trovare le ragioni per stare ancora nel Pd. Se prevale la “bottega”, liberi tutti.

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1 Commenti

  1. Lina martedì 18 Dicembre 2018

    Finché la vecchia guardia non lascia libero il passaggio andremo sempre male perché il male sono loro , io voterò per Giachetti Ascani .

    Rispondi

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