Intervista a Stefano Ceccanti a cura di Gabriele Penna*
Le elezioni in Basilicata sono state il primo ‘test’ con Zingaretti segretario del Pd, non sono andate benissimo…
Non ho votato Zingaretti, ma non credo che si possa dire che fossero il suo primo test, anche perché Zingaretti è arrivato a candidature già chiuse. Eviterei quindi di caricarlo di responsabilità che non ha. Ovviamente non si poteva immaginare che le primarie, al di là di un limitato effetto momentaneo per una maggiore visibilità del Pd, fossero risolutive. Ciò detto il voto è preoccupante come quello del Trentino. Nel vecchio bipolarismo il Trentino era l’eccezione del Nord-Est, così come la Basilicata lo era a Sud. In entrambi i casi si era avuta una stabile egemonia del centrosinistra legata allo spostamento della gran parte dell’elettorato moderato che votava in precedenza per i partiti di governo, in primis per la Dc. Elettorato che, invece, nel resto del Nord-Est è sempre andato al centrodestra e che nel Sud è stato poi molto fluido. Al momento, anche dopo le primarie, il Pd non pare attrattivo per questo elettorato e neanche sembra avere alleati in grado di esserlo. Potrebbe essere capace di riguadagnare qualcosa nell’elettorato tradizionale, ma questo non basta.
Vede bene un Pd che coinvolge tutto il fronte o è ancora per la vocazione maggioritaria?
Qui ci sono tre precisazioni da fare:
-la prima è che la vocazione maggioritaria non ha mai significato isolamento pregiudiziale, ma solo consapevolezza che le alleanze devono essere credibili per governare, altrimenti si creano cartelli come l’Unione che possono al limite vincere ma che poi esplodono subito dopo;
-la seconda è che le coalizioni sono credibili se hanno un chiaro perno che le strutturi, come a destra era una volta Forza Italia ed oggi la Lega, intorno a quello si può aggregare altro, ma quel perno ci deve essere. E non mi sembra che ci siano alternative al Pd;
-la terza è che ci deve essere un quadro di incentivi istituzionali coerenti e il ritorno al proporzionale è almeno in parte in contraddizione con questo lavoro, espone al rischio di cercare a tutti i costi alleanze post-elettorali eterogenee che non si avrebbe con un sistema maggioritario.
Il suo emendamento per il quale il referendum (mi riferisco alla proposta di modifica costituzionale del M5s), sia propositivo che abrogativo, è valido se gli elettori che votano “sì” sono oltre il 25% degli aventi diritto, ha avuto parere positivo, come ha avuto parere positivo anche un suo secondo emendamento, per il quale la legge attuativa del referendum, dovrà avere la maggioranza assoluta dei voti nelle Camere. Questo basta a far dire sì al Pd a tutto il provvedimento?
No, per due motivi. Il primo è che resta un quasi automatismo tra presentazione della proposta e voto referendario con pochi margini di mediazione per il Parlamento. Noi vogliamo che si possa ritenere soddisfatta la richiesta senza andare a referendum se il Parlamento vada nella direzione della proposta realizzando una mediazione diversa. La seconda è che vanno limitate le materie escludendo quelle a maggior rischio demagogia, come l’ambito penale e quello delle leggi di spesa.
A chi dovrebbe fare l’opposizione il Pd in prospettiva? Alla destra di Salvini o al M5s?
Ovviamente per me ad entrambe.
Crede anche lei che stia tornando il bipolarismo?
Qui dobbiamo distinguere.
Un primo aspetto è che sembra stabilizzarsi il Pd e il centrosinistra come secondo schieramento e potremmo assistere a una forte crisi del m5s.
Il punto è però che il bipolarismo è legato alle regole. Nei Comuni e nelle Regioni il bipolarismo c’è sempre stato dagli anni ’90 perché è insito nelle regole. Possono cambiare i poli che arrivano primo o secondo ma il sistema è congegnato per produrre un vincitore. Viceversa a livello nazionale, ameno di un declino rapido di uno dei tre schieramenti, il bipolarismo rischia di non esserci perché potrebbero essere necessari accordi post-elettorali.
Rivedrebbe la legge elettorale?
Sì, in termini più chiaramente maggioritari per consentire appunto che gli elettori anche a livello nazionale scelgano direttamente una maggioranza e il Governo, senza avere l’ossessione di chi sia favorito nella prima applicazione della legge. L’elettorato è mobile e quindi le opzioni sono reversibili. Meglio queste che coalizioni conflittuali.
In tempo di sovranismo e in vista delle elezioni europee, l’Italia dovrebbe riprendere in mano più potere o cederne ancora a Bruxelles?
Un Paese come il nostro, interessato da un alto numero di sbarco di immigrati e con alto debito, ha come interesse nazionale quello di rafforzare le istituzioni comuni, dove siamo peraltro rappresentati. Se le politiche migratorie restano nazionali vuol dire che c’è scaricabarile verso i Paesi di sbarco. Se non c’è un bilancio forte dell’Eurozona ogni Paese rischia di essere lasciato a se stesso e soprattutto per chi ha alto debito rischia di essere in balia dello spread.
L’autonomia regionale, sul cui insiste molto Luca Zaia, e che trova resistenza nel M5s, viene appoggiata da una parte del Pd, almeno quello del nord, lei pensa che possa far progredire il Paese, o minarne l’unità?
Dipende. A me sembra difficile che si possa produrre qualcosa di ragionevole da tante trattative bilaterali tra Governo e singole Regioni. Rischiamo che si blocchi tutto o che vengano assegnate competenze e risorse a chi ha una maggiore forza politica verso l’esecutivo con oscillazioni nel tempo. La Spagna è una dimostrazione di questo. Se non c’è una regia istituzionale complessiva in una camera delle autonomie, con le caratteristiche di trasparenza tipiche di un’assemblea parlamentare (e che la conferenza Stato-Regioni non ha) temo si possano fare solo danni. Il Parlamento dovrà essere vigilante.
*Tratta da Affaritaliani.it