Il dossier sull’università è tra quelli che il governo sta aprendo. Deve farlo non solo perché si tratta di un passaggio cruciale per il Paese – soprattutto per chi ha a cuore l’innovazione e la ripresa – ma anche perché nel frattempo si sono aggrovigliati, in parte per inerzia in parte per cattive abitudini, alcuni nodi che rischiano di portare al collasso il sistema. Negli ultimi tempi cominciano a levarsi sempre più spesso voci che invitano a intervenire al più presto e sono altresì evidenti i passi governativi, che mostrano la volontà di preparare il terreno a un autunno che potrebbe essere caldo anche su questo fronte.
Nonostante gli intoppi che sono insorti per la Buona Scuola è probabile che si seguirà (in realtà si sta già seguendo) uno schema simile: una fase di ascolto di un’ampia platea, e di seguito un intervento speciale sul reclutamento congiunto a uno sui meccanismi, per dar vita a un anno costituente per l’università. Il governo dovrà lavorare sul fronte delle tasse universitarie, del welfare studentesco a brandelli, del collegamento tra scuola superiore e università, ed affrontare il delicato nodo della ricerca e del reclutamento.
Anche qui, a essere onesti, il governo si trova a confrontarsi con alcuni grossi pasticci del passato (anche se a volte vi mette del suo): in questo caso i pasticci hanno acronimi esoterici come SIR, rtdB, rtdA, ASN. Sono le tappe del reclutamento nato dalla riforma Gelmini, che per – per quanto farraginoso – era pensato per essere concatenato e il più possibile indipendente. Inoltre lo si immaginava capace di far andare avanti solo i più meritevoli, dando loro un tempo determinato per dimostrare il loro valore. Se però si bloccano i passaggi, si creano sacche di precariato “incattivito”, che dopo spingerà per sanatorie; si accentua la fuga dei cervelli; si privilegia il reclutamento per cooptazione (che pure permane anche con questo sistema, ma è depurato dei suoi elementi più distorti). Per questo dovrebbe essere nell’interesse di tutti che il meccanismo venga eventualmente revisionato e forse alleggerito, ma che soprattutto venga fatto funzionare.
In questo momento ritardi e blocchi affliggono tutti i tasselli del puzzle, e non solo per questione di turnover e di vilissima ma necessaria pecunia. I bandi per progetti di ricerca d’avanguardia (SIR), nati frettolosamente sotto la gestione Carrozza, dopo aver kafkianamente proseguito il proprio iter e pubblicato i propri risultati con mesi di ritardo, hanno già saltato un anno. L’Abilitazione (ASN), fondamentale per partecipare ai concorsi da professore, è anch’essa ferma, in questo caso per decisione dell’attuale Ministro, e ancora impelagata a dirimere alcuni lasciti tossici della prima tornata del 2012. In entrambi i casi non si sa quando ripartiranno. I posti da ricercatore – a tempo determinato, s’intende – sono nel frattempo crollati nel numero.
Con una mano, insomma, il Ministero impone tempi certi e passaggi intermedi per le progressioni, ma poi con l’altra ne ostacola l’adempimento.
Ora, il punto non è certo quello di dare una risposta a chi preme all’ingresso, frustrato da anni di sostanziale blocco del turnover (quantomeno non solo e non in prima battuta); bensì capire quante persone, e con quali competenze servano al mondo universitario. Una domanda che può ottenere risposta solo se decidiamo cosa fare dell’Università e della ricerca; che tipo di rapporto vogliamo che la formazione universitaria abbia con i propri territori; in che maniera collegare università e mondo del lavoro. Si tratta, ancora, di capire se si intende gestire l’esistente, oppure aumentare il numero degli iscritti e dei laureati del paese, e in quali discipline. Veniamo da un quinquennio di fuga dall’Università, in un paese che è già agli ultimi posti per numero di laureati nelle classifiche OCSE (l’obiettivo di Europa2020 è avere il 40% di laureati; la media europea è al 35%, l’Italia è al 20%).
Se si intende puntare davvero sul rilancio del sistema nel suo complesso, indubbiamente serviranno molte persone. Ma sfuggendo alla desertificazione, bisogna evitare che l’eventuale reclutamento straordinario avvenga sul modello dei famigerati “ope legis” del passato che hanno poi bloccato l’accesso alla carriera per i decenni successivi.
La soluzione dovrebbe invece essere in piani di più lunga durata, che evitino strozzature e diano la certezza delle tappe, dei momenti e dei modi della valutazione. A partire da alcuni robe semplici: se si decide che il sistema si fonda su alcuni pilastri, non dovrebbe accadere che si interrompano a ogni cambio di ministero; se si fanno dei bandi o dei concorsi affermando che i risultati si avranno entro una certa data, non si possono avere ritardi pluriennali. Sembra poco o nulla nel Paese che vede sistematicamente dilazionare i pagamenti alle aziende, ma ne va invece della serietà del progetto che si vuol portare avanti. Anche se il modello Gelmini è lungi dall’essere perfetto, inoltre, bisognerebbe quantomeno cercare di salvaguardare – e rafforzare – una certa prevedibilità del sistema. La ricerca prosegue seguendo le sue strade, ma i suoi «prodotti» sono inevitabilmente legati al modo in cui vengono valutati: cambiare in continuazione impedisce di programmare il lavoro per i singoli, per i gruppi di ricerca e per gli atenei, incidendo sulla qualità del sistema accademico, e in ultima analisi sulla sua stessa tenuta. Prevedibilità che non vuol dire salvaguardia dell’esistente; perché, non troppo paradossalmente, è nella gestione delle emergenze, negli interventi miracolistici per colmare le manchevolezze croniche, che si replicano i difetti di sempre dell’Università italiana.
Storico della filosofia, lavora presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. È stato fellow del Warburg Institute di Londra, borsista dell’Istituto italiano di studi storici e del Cmrs di Ucla. Si occupa da anni di formazione e di cultura politica