di Carlo Fusaro
La deriva leaderistica, il rischio di delegittimazione delle Camere, l’elezione del capo dello stato. Dubbi fondati? Non molto. La maggiore selezione porterà a un miglioramento qualitativo della classe parlamentare
Analizziamo, uno per uno, gli argomenti dei fautori del No al referendum, e cerchiamo di capire se sono argomenti validi.
Lascio da parte coloro che pensano che la riduzione del numero dei parlamentari sia opportuna, ma che si è esagerato nella misura (il taglio di un terzo sarebbe eccessivo). Abbiamo visto già che regole standard non ce ne sono; ma soprattutto credo si possa affermare che le controindicazioni evocate dai critici (di discuto di seguito) difficilmente potrebbero essere superate se il taglio fosse di cinquanta o anche cento parlamentari in meno. Insomma fra 600 e 650 o 700 chi può ragionevolmente pensare che cambi nientemeno che la “qualità della democrazia”?
1) Riforma organica? C’era quella del 2016. Peccato!
Una prima critica è quella in base alla quale la riduzione avrebbe dovuto avvenire in un quadro più ampio che includesse la revisione delle funzioni delle due Camere. Intanto a me pare un’osservazione che si può permettere di fare solo chi ha votato “sì” al referendum del 4 dicembre 2016! Quel voto andò come andò: la conseguenza è che per molti anni sarà difficile tornarci su. La riduzione rispetta quell’esito e si concentra su un aspetto specifico, isolato dal resto. A me sarebbe piaciuto diversamente, ma non posso che prenderne atto. E prendere atto, anche, che politici e accademici ci hanno spiegato fino alla nausea che “le riforme costituzionali è bene (e secondo taluno è doveroso) siano puntuali e non organiche”. Non si può essere contro una riforma organica perché mette insieme troppi aspetti diversi e poi essere contro una riforma puntuale perché… non è organica.
2) Eccessiva frammentazione e problemi di rappresentatività
Una seconda critica riguarda una presunta minore rappresentatività di assemblee ridotte drasticamente nel numero dei componenti. E’ a mio avviso la critica più seria, anche se indica un rovesciamento di opinione rispetto a quella consolidata delle riforme fatte e tentate in Italia dagli anni Ottanta dello scorso secolo ad oggi. Secondo i fautori di questa tesi, meno parlamentari comportano varie conseguenze negative: (a) la probabilità dell’ingresso in Parlamento di meno forze politiche; (b) un rapporto eletti/elettori meno stretto; (c) la probabilità che la distribuzione territoriale (regionale, provinciale, cittadina) degli eletti “copra” meno il paese nella sua varietà e complessità: in pratica che vi siano province o parti di province che non esprimano il “loro” parlamentare. Questa critica si collega ovviamente con la legislazione elettorale in vigore, le cui caratteristiche ne accentuerebbero le conseguenze (e infatti se ne trae spunto per un’ennesima modifica del sistema elettorale).
Dissento radicalmente, e con qualche fastidio, dal primo punto (a): non si può lamentare l’eccessiva frammentazione della rappresentanza un giorno e poi il giorno dopo preoccuparsi se una riduzione dei parlamentari rischia di lasciar fuori qualche partitino. Sul secondo (b) ho poco da dire: non c’è dubbio che ogni parlamentare rappresenterà più cittadini, obietto però che l’unica alternativa sarebbe quella di tenerci i quasi mille che abbiamo adesso… e magari aumentarli! D’altra parte non si deve dimenticare che il cittadino – rispetto ai tempi della Costituente – elegge oggi direttamente sindaci e presidenti di Regione nonché i consiglieri regionali della sua Regione, che sono legislatori anch’essi. Stesso discorso vale per il punto (c): a parte che già adesso vi sono – ovviamente – città e province (c.d. “territori” come si usa dire oggi, con espressione approssimativa e generica) che non esprimono alcun “loro” parlamentare, va ripetuto il discorso appena fatto: ci sarà, invece, il consigliere regionale, tanto più che i componenti del Parlamento è bene siano legati ai luoghi dove vengono eletti, ma meglio non lo siano troppo. Avverto in proposito un curioso localismo di ritorno che riscopre il legame diretto fra elettori ed eletti che proprio chi si preoccupa dell’antipolitica e delle sorti dei partiti politici (come molti fautori del “no”), non dovrebbe condividere.
Qui mi soffermo: perché dato e non concesso che sia opportuno un legame stretto fra collegi ed eletti e una sorta di equi-distribuzione sul territorio degli eletti, sono cose di cui si può occupare la legge elettorale. Per esempio creando 400 collegi uninominali per la Camera e 200 per il Senato: invece – fautori del “no” e fautori del “sì” uniti nella lotta – si va allegramente, così pare, in direzione opposta, cioè verso l’abolizione dei collegi rimasti (un terzo). Eppure è evidente che delle due l’una: o si privilegia un certo rapporto proporzionale fra popolazione e seggi o ci saranno comunque realtà che non esprimono un loro concittadino (comunale, provinciale) come rappresentante: quale che sia la legge elettorale.
3) Il falso problema del Trentino-Süd Tirol
Una terza critica riguarda come la riduzione si realizza nel distribuire i deputati e soprattutto i senatori per regione: sarebbero troppo rappresentate regioni piccole (si segnalano Val d’Aosta, Molise, Trentino-Süd Tirol). Osservo che in misura maggiore o minore è sempre stato così grazie alla regola degli almeno sette senatori per regione (tranne Val d’Aosta e Molise, quest’ultimo fin qui penalizzato). Leggo poi indignati commenti sul fatto che la regione Trentino-Süd Tirol avrebbe ben 6 senatori (molto più della media): come se non esistesse il problema della tutela (in parte anche internazionale) della minoranza di lingua tedesca e come se non fosse vero che solo formalmente esiste una regione Trentino-Süd Tirol mentre esistono invece due province autonome, di Trento e di Bolzano che sono di fatto ciascuna una regione (e tutte le regioni avranno minimo 3 senatori, salve le solite due eccezioni)! Altri più grossolani critici parlano di minoranze linguistiche non tutelate: per cui uno si domanda, troppo o troppo poco? Bisognerebbe mettersi d’accordo.
4) La selezione naturale
Una quarta critica riguarda il fatto che meno parlamentari sarebbero più immediatamente soggetti alla leadership del partito che li candida, e anche più facilmente vittime di lobbies. Anche su questo facciamo chiarezza: non siamo nell’Ottocento (nelle assemblee di notabili in cui non esistevano partiti politici). Che i parlamentari facciano – salve eccezioni e casi di coscienza – cosa il partito che li ha candidati (e il gruppo) decide, si presume secondo le direttive di chi guida il partito, non solo non deve scandalizzare, ma è utile sia così. Il regime parlamentare non può funzionare se i gruppi non sostengono lealmente il governo (o altrettanto lealmente gli si oppongono).
Non basta: legge elettorale a parte, continuo a pensare che la qualità della rappresentanza non possa che migliorare da una maggiore inevitabile selezione quantitativa: del resto è difficile immaginare una classe parlamentare più modesta di quella espressa dalla XVIII e dalla XVII legislatura. Ferme restando le percentuali di voto attribuite alle forze politiche dagli elettori, non pensiamo che mediamente la qualità di 600 dovrebbe essere tendenzialmente migliore di quasi mille? (Dovrebbe, potrebbe: non è detto, naturalmente). Quanto alle interferenze di interessi esterni (quelle non trasparenti o addirittura vietate perché in conflitto: le altre sono legittime ed anzi preziose), a me pare che assemblee più numerose rendano più probabili possibili infiltrazioni, mentre dovrebbe essere più agevole controllare e responsabilizzare un numero minore di parlamentari.
5) L’elezione del presidente della Repubblica
Una quinta serie di critiche riguarda le eventuali conseguenze che la riduzione avrebbe sui quorum che la Costituzione prevede per alcune decisioni parlamentari (elezione dei giudici costituzionali, dei componenti del Csm, revisione costituzionale, elezione del presidente della Repubblica): quest’ultima a parte, non si capisce davvero la ragione di tale preoccupazione visto che si tratta di percentuali che restano identiche a quelle vigenti, pur applicate a numeri più piccoli. Una giovane studiosa, Elena Vivaldi, ha esaminato con grande meticolosità questi aspetti ed ha concluso che “…in ultima analisi… non pare che la riduzione del numero dei parlamentari possa alterare, in modo diretto ed indipendente da altre variabili, le funzioni analizzate” (quelle elencate sopra). Parzialmente diverso – in minima parte – il discorso per l’elezione del presidente della Repubblica: ad essa infatti partecipano 58 delegati regionali il cui numero la legge di revisione non tocca. Quindi sul totale dei grandi elettori la quota di espressione dei consigli regionali salirebbe, rebus sic stantibus, dal 5.8 per cento all’8.7 per cento: essi in altre parole peserebbero un po’ di più. Ma i delegati regionali non hanno mai costituito un gruppo omogeneo che si esprime come tale: si tratta di uomini di partito che ad altri uomini di partito si aggiungono. Un vantaggio potrebbe derivarne solo nel caso di un partito o una coalizione di partito che fosse maggioritaria in tutte o quasi tutte le Regioni: ma anche in tal caso l’effetto sarebbe limitato dall’obbligo costituzionale di rappresentanza delle minoranze, per cui in nessun caso quel “vantaggio” potrebbe essere superiore a una manciata di voti. Ad ogni buon conto, infine, la riduzione proporzionale del numero dei delegati regionali (a 39) è prevista da un progetto in itinere (sul quale sarebbe comunque bene riflettere: perché delle due l’una, o si rischia un effetto contro-maggioritario con le delegazioni regionali composte da un delegato di maggioranza e uno di opposizione oppure un effetto troppo maggioritario con i due delegati entrambi attribuiti alla cadendo così dalla padella nella brace).
6) Adeguare i regolamenti parlamentari
Una sesta preoccupazione riguarda un aspetto già trattato prima, quello dell’opportunità di adeguare i regolamenti parlamentari: ci si domanda se e come ciò avverrà, e si segnalano difficoltà e possibili conseguenze negative. Ma in tutta onestà non si vede perché ciascuna Camera non dovrebbe procedere con buona volontà al riguardo. Anzi sarebbe utile che la riflessione e la progettazione, e magari anche l’approvazione di nuove disposizioni fossero perseguite già in questa legislatura. D’altra parte non conosco innovazione di sorta (o quasi), specie costituzionale, che non imponga per la concreta ed efficace sua applicazione un’attività successiva di adeguamento ed attuazione attraverso il varo di norme di fonti subordinate (oltre che ovviamente comportamenti adeguati). E’ chiaro che se si rinuncia ad innovare solo per il timore che ciò non avvenga o non avvenga nella misura attesa, si finisce preda della conservazione più ottusa e non si combina mai nulla.
7) Il Parlamento, Bertoldo, il rischio dello scioglimento anticipato
In ultimo c’è chi dice che – entrata in vigore la riduzione – si accentuerà la pressione per elezioni anticipate a causa di una presunta delegittimazione del Parlamento. A parte che la Corte costituzionale ha detto al riguardo cose definitive in senso opposto, non si vede proprio perché dovrebbe essere così: al contrario io direi anzi che un “no” delegittimerebbe davvero le due Camere, smentite per l’ennesima volta e su un punto così specifico; mentre un “sì” ne confermerebbe e ne esalterebbe, oggi, la legittimazione. Né si può fare come Bertoldo e trovare sempre una scusa per non fare quel che si deve, una volta affermando che sono inopportune riforme a fine legislatura, un’altra affermando che, avendo riformato… diventa necessario sciogliere subito le camere.
Non mi soffermo sui ricorsi provocatoriamente presentati contro il voto in un’unica tornata con altre votazioni amministrative e regionali (e due seggi suppletivi parlamentari: c.d. election day) sollevate dagli avversari della riduzione. Ci han pensato la Corte costituzionale e il Tar del Lazio a respingerli al mittente. Dico solo due cose: ci vuole una bella faccia tosta per sostenere (a) che la contemporaneità dell’election day era inopportuna ed era meglio convocare i cittadini due volte a distanza di poche settimane, spendendo il doppio, interrompendo due volte le scuole dove i seggi sono nelle scuole, raddoppiando i rischi legati al coronavirus; (b) che il voto avrebbe dovuto tenersi non domenica e lunedì ma solo domenica, in entrambi i casi (a) e (b) sostenendo che si sarebbe dovuto fare di tutto per ridurre e non aumentare la partecipazione degli elettori! Guastatori della Costituzione (altro che difensori!).
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).