di Carlo Fusaro
Il taglio dei parlamentari è una riforma modesta, ma bocciarla sarebbe un danno e confermerebbe l’irriformabilità delle nostre istituzioni politiche anche per aspetti minori
Il 20-21 settembre 2020 ciò che gli elettori sono chiamati decidere è: preferiamo lasciare intatta la composizione attuale delle due Camere, fissata nel 1963, per un totale di 945 parlamentari elettivi, o preferiamo confermare quanto il Parlamento ha deciso, cioè una riduzione proporzionale di circa un terzo, prevedendo un totale di 600 parlamentari elettivi (restano, fino al massimo di 5, i senatori di nomina presidenziale)? Questo, e non altro, è l’oggetto del referendum.
La scelta riguarda, prima di tutto, il merito della riforma: è opportuno ridurre il numero dei parlamentari elettivi del nostro Parlamento? E’ opportuno ridurli in questa misura? Ovvero: quali sono i pro e quali i contro della legge di revisione varata a fine 2019? Essa riguarda, in secondo luogo, le possibili conseguenze di più ampio respiro del prevalere del “sì” o del “no”: cosa è ragionevole presumere possa succedere, dopo, in un caso e nell’altro. Va da sé che sia l’una sia l’altra di queste valutazioni va contestualizzata: va cioè collocata sullo sfondo del giudizio generale sul funzionamento delle istituzioni politiche italiane, tenendo conto vuoi della lunga teoria di precedenti che, in materia, si sono avuti dai tempi dell’Assemblea costituente fino ad oggi vuoi dei più recenti sviluppi del sistema politico. Credo che non vi sia alcun dubbio sul fatto che snellire il Parlamento italiano riducendo la composizione delle due Camere sia una scelta opportuna: del resto essa è stata condivisa da tutte le forze politiche, praticamente nessuna esclusa, da molti decenni. Ma oltre che per motivi storici (è dal 1983 che si prova a tagliare il numero dei parlamentari) la proposta di riduzione regge anche il confronto con altri paesi. Su questo si leggono affermazioni semplicemente false e dati manipolati.
Oggi l’Italia ha un rapporto fra parlamentari e popolazione più basso di qualsiasi altro paese comparabile ad eccezione della Spagna, anche a considerare solo la Camera; ma in più ha il Senato! Ovviamente questi dati cambiano molto con la riduzione prevista dalla riforma: ma siccome essi vengono usati ai fini non solo di un’astratta comparazione ma anche per la discussione sul presunto vulnus alla capacità di rappresentare del Parlamento, ritengo corretto considerare il numero totale dei parlamentari elettivi.
E’ una scelta tutta italiana quella di suddividerli in due camere che fanno esattamente le stesse cose: resta che c’è oggi un parlamentare eletto ogni 63.900 abitanti e domani ce ne sarà uno ogni 100.666 (in Germania, 1 ogni 116.220; in Francia 1 ogni 116.118; nel Regno Unito 1 ogni 102.769). Lasciando da parte la comparazione, sotto questo specifico profilo, si può aggiungere che quel rapporto si abbassa se si considerano non gli abitanti, ma gli elettori: che sono 50.800.000 per la Camera e, oggi, solo 46.700.000 per il Senato: il che produce un rapporto di 1 a 80.630 per la Camera, di 1 a 148.250 per il Senato con un rapporto cumulativo di 1 parlamentare ogni 49.400 elettori del Senato!
Questo rapporto salirà a 1 ogni 84.600 (senza più distinzioni Camera-Senato). Va anche detto che, come si legge in un parere della Commissione per la democrazia attraverso il diritto del Consiglio d’Europa (c.d. Commissione di Venezia), “non esistono standard internazionali che consiglino un qualsiasi rapporto fra seggi parlamentari e dimensione della popolazione” (parere 662/2012 del 18 giugno 2012).
Dunque, a parte il fatto che in concreto, mano a mano che cresce la popolazione, il rapporto tende ad alzarsi (per ovvie ragioni), ogni paese fa come vuole. In ogni caso rimane la sproporzione attuale del numero dei parlamentari italiani (e il costo delle due Camere doppione che pesano più di qualsiasi altro Parlamento in Europa, sfiorando quello del Congresso Usa) spiega sia il favore di tutte le forze politiche per la riduzione sia la generalizzata opinione popolare nella stessa direzione (entrambe, come si è visto, indipendenti e precedenti le spinte demagogiche di partiti come il M5S).
Segnalo infine una curiosità, per quel che può valere: un importante politologo estone, Rein Tageepera, ha teorizzato che il numero di rappresentanti “ideale” sarebbe la radice cubica della popolazione rappresentata: ebbene applicando la sua “legge”, i 60.400.000 italiani dovrebbero esprimere esattamente 392,14 deputati, un numero straordinariamente vicino ai 392 (più gli 8 che rappresentano i circa quattro milioni di italiani all’estero) che effettivamente essi eleggeranno se la riforma verrà confermata. Del resto ha scritto bene un giovane studioso, Giacomo Delledonne, tenendo conto anche della lezione comparata inclusi i progetti di riduzione (per esempio francesi e le tendenze di lungo periodo): “la vicenda italiana…” costituisce “…la declinazione particolare di un più vasto movimento europeo…”.
Ma la riduzione dei parlamentari che vantaggi potrebbe comportare oltre a quello, da non trascurare, di aiutare a riconciliare cittadini e istituzioni? Si è parlato prima di tutto di minori costi, in secondo luogo di maggiore funzionalità. Condivido, pur con alcune avvertenze.
Sui minori costi (così come nel 2016) si fa molta confusione, giocando sui criteri per calcolarli, con i fautori della riforma tesi a gonfiare il risparmio conseguibile e gli oppositori tesi a ridimensionarlo, entrambi al di là di ogni ragionevolezza. A parte il fatto che non capisco questa recentissima moda di considerare del tutto irrilevanti tali risparmi (quale che ne sia l’entità), credo sia doveroso distinguere i minori oneri immediati e quelli a regime. I primi consistono nelle sole indennità e nei soli rimborsi spese di 345 parlamentari.
I secondi sono destinati ad essere, invece, molto più consistenti. Infatti oggi la Camera “costa” 960 milioni/anno e il Senato 545: come si vede, vi è un rapporto preciso fra componenti e spesa (la Camera costa 1,5 milioni/anno per componente; il Senato 1,7: la differenza dipende da alcuni oneri fissi derivanti al solo fatto che un’assemblea esista e faccia certe cose, indipendentemente dalla composizione). Del totale, poi, ben il 42 per cento sono pensioni e vitalizi, che ovviamente continueranno ad essere erogati e diminuiranno solo col tempo, lentamente.
Allo stesso modo, all’indomani della riduzione non è da pensare che impiegati e funzionari verranno licenziati di botto o i locali occupati dagli uffici dei 345 in meno venduti subito. Tuttavia è altrettanto chiaro che, alla lunga, si avrà un ridimensionamento sia pur degressivo (meno che proporzionale) in relazione al numero dei componenti: e ancor di più se, continuando la strategia di totale uniformazione delle due Camere, si saprà risparmiare creando un corpo unico di funzionari e servizi comuni (strada invero già avviata e che la riforma del 2016, quella bocciata, aveva previsto fosse obbligata). In conclusione: pensare, in un paio di decenni, a un ridimensionamento di almeno il 25 per cento dei costi non appare fuori luogo: nell’ordine di 3-400 milioni all’anno e 1,5-2 miliardi per legislatura da cinque anni. Sono il primo a condividere l’assunto secondo il quale sarebbe miope fare i micragnosi a danno della rappresentanza democratica: ma da qui a finanziare senza limiti un Parlamento pletorico come l’attuale ne corre.
E non mi riesce di capire come gli stessi fautori del “no” (all’insegna del “non si risparmia sulla democrazia”) possano poi proporre in alternativa la riduzione di indennità e rimborsi: che avrebbe conseguenza avere più parlamentari peggio pagati, ricetta sicura per peggiorare ancora la qualità delle “vocazioni” e accrescere le tentazioni.
Quanto alla funzionalità e agli effetti su di essa della riduzione, siamo davanti a un altro argomento molto dibattuto: anche su questo si leggono tante affermazioni apodittiche e tanta propaganda. Penso che si tratti laicamente di distinguere fra presupposti e comportamenti concreti.
Non mi pare si possano nutrire molti dubbi sul fatto che assemblee meno pletoriche siano in teoria più funzionali: meno gruppi, gruppi meno folti, commissioni meno affollate, potenzialmente meno interventi, votazioni più rapide, e così via. Naturalmente molto dipenderà dal se e come dell’adeguamento dei regolamenti delle due Camere: numero delle commissioni, partecipazione dei singoli (oggi limitata ad una sola commissione), verifica dell’adeguatezza dei quorum, mantenimento o no del numero di componenti ai fini della costituzione di un gruppo, e così via. Ma soprattutto molto dipenderà dai comportamenti. E su questi nessuno può dare garanzie né in una direzione né in quella opposta.
Va però aggiunto che assemblee meno numerose sono in genere più prestigiose e sono in grado di pesare di più rispetto ad assemblee pletoriche. Al riguardo osservo che, pur in un sistema molto diverso, l’assemblea rappresentativa più potente del mondo è il Senato degli Stati Uniti, e ciò anche perché composto di solo 100 componenti (oltre che per la durata lunga del mandato): mentre le assemblee rappresentative dei paesi socialisti, a partire da quella dell’Urss, hanno tipicamente contato poco o nulla. Oggi l’Assemblea nazionale del popolo della Repubblica popolare cinese ha significativamente 2980 componenti. In ultimo, penso anche che assemblee più snelle permettano una selezione migliore della classe politica: anche se alcuni fautori del “no” pensano l’esatto contrario. Ne riparlo più avanti.
Ma la riduzione del numero dei parlamentari, ammesso che sia positiva come io sostengo, e per nulla “pericolosa”, che riforma è: fondamentale, rilevante, decisiva, grande oppure modesta, marginale e tale che sia difficile appassionarvicisi? Come ha visto chi mi ha seguito fin qui, non ho speso righe per richiamare l’esperienza della riforma del 2014-2016: a me pare evidente che le istituzioni politiche italiane abbisognano più che mai di un incisivo cambiamento che incida sul bicameralismo, sulla forma di governo, sui rapporti Stato-Regioni e su molto altro ancora.
La riduzione dei deputati è una scelta in sé giusta che avrebbe meritato di essere inserita in un contesto molto più ampio: se non che il Parlamento ci ha provato più volte ma invano. Si deve tenerne conto. Né si può ignorare che la composizione politica delle Camere di questa legislatura è quella che gli italiani hanno deciso due anni fa.
E’ questo quel che passa il convento. Si tratta dunque di un intervento non solo puntuale, ma direi parziale, e certamente marginale; non inutile, ma modesto. E però respingerlo farebbe danni notevoli. Confermerebbe l’irriformabilità delle nostre istituzioni politiche, anche per aspetti minori; confermerebbe un atteggiamento di delegittimazione del Parlamento, di questo e dei precedenti che hanno votato per ben 13 volte 13 la riduzione del numero dei propri componenti (un record fra tutte le democrazie consolidate).
Chi si preoccupa della vera o presunta umiliazione della democrazia rappresentativa dovrebbe ben comprendere che dire di “no” a questa miniriforma sarebbe un vero e proprio insulto, la prova provata che qualsiasi cosa decidano le forze politiche v’è un corpo elettorale così inferocito da rispondere sempre e comunque con uno sberleffo. Ricordo che al Senato nella seconda votazione i sì sono stati 180 su 231 presenti (il 78.3% di costoro, il 56% dei componenti), mentre alla Camera sono stati ben 553 su 569 presenti (il 97.2%, quasi l’88% dei componenti). Si può ben dire che siamo di fronte a una riforma condivisa da tutte le forze politiche e di cui tutte condividono la responsabilità. Di più: anche se discutere di istituzioni non fa mai male, quello del 29 marzo è un referendum che non avrebbe dovuto tenersi. Le cronache politiche di fine 2019 hanno mostrato senza ombra di dubbio che sia i voti mancati al Senato rispetto ai due terzi (ce ne sarebbero voluti 34 in più) sia le firme sulla richiesta di referendum (71, ne sarebbero bastate 64), con la sceneggiata di quelle messe, ritirate e poi riaggiunte, è stata dovuta non già alla opportunità di sottoporre la scelta finale al corpo elettorale, ma a intrecci contorti e molto poco trasparenti intorno alle modifiche alla legge elettorale, al referendum che era stato richiesto (e la Corte ha dichiarato poi inammissibile) e, prima di tutto, a calcoli sofisticati e cervellotici sulla durata della legislatura.
Infine: in che direzione va la parte attualmente maggioritaria delle forze politiche nel predisporre ulteriori innovazioni elettorali e costituzionali a corredo della riduzione di deputati e senatori, secondo le intese M5S-Pd alla formazione del governo Conte II? Va verso un’eliminazione – a questo punto ragionevole e quasi doverosa – dei residui elementi di differenziazione fra le due Camere gemelle grazie alla (tardiva) estensione dell’elettorato del Senato ai cittadini maggiorenni e il superamento della rigida ripartizione regionale delle circoscrizioni senatoriali: in altre parole si sta realizzando una sorta di bicameralismo assoluto, cioè un Parlamento fatto di due Camere del tutto identiche in tutto tranne che, ormai per ragioni meramente storiche, il numero dei componenti (e la presenza dei senatori a vita).
E’ legittimo sperare che, visto che l’esperienza mostrerà presto che la riforma non arreca grandi vantaggi ma neanche danni (diversamente da quello che i fautori del “no” dicono di temere), l’assurdità e la strutturale inefficienza di un Parlamento di questo genere, costruito a ben vedere solo ed esclusivamente per rallentare i processi decisionali parlamentari e indebolire il rapporto governo-Parlamento, finirà con il risultare in tutta la sua clamorosa evidenza, rilanciando il tema delle riforme politico-istituzionali, quelle davvero incisive.
Ecco per che, in conclusione, mi domando: come si fa a votare, anche stavolta, “no”? E perché?
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).