LibertàEguale

Digita parola chiave

Condividi

di Vittorio Ferla

 

Questa volta “Big Ben ha detto Stop”. Stop ai ritardi, alle titubanze e alle crisi di nervi sulla Brexit. Scegliendo Boris Johnson il Regno Unito ha chiesto di uscire dall’Europa e di farlo in fretta. Ancora una volta la dimostrazione che a quelle latitudini la volontà dei cittadini – quella che fu espressa con il referendum del 2016 – va presa sul serio.

 

I risultati elettorali

Così, il partito Tory ha ricevuto quasi 14 milioni di voti (pari al 43,6%), conquistando 364 seggi nel nuovo parlamento. A guardar bene, l’insieme degli oppositori ha ottenuto più voti se si sommano quelli del Labour (10 milioni di voti, pari al 32,2%), del National Scottish Party (più di un milione di voti, pari al 3,9%) e dei Lib Dem (più di 3 milioni e mezzo di voti, pari all’11,5%). Ma la somma finale non è soltanto causa degli effetti “disproporzionali” del sistema maggioritario britannico. Questi voti non sono assimilabili, in realtà, sia per le profonde differenze programmatiche (il manifesto veterosocialista di Corbyn non poteva essere adottato dai liberaldemocratici di Jo Swinson) che per la posizione sulla Brexit (il Labour era profondamente diviso al suo interno). Il risultato è che ha vinto la proposta più facile e chiara, quella di BoJo: “Get Brexit Done”.

Parleremo adesso di populismo conservatore, di neoprotezionismo e di maggiore interventismo in economia. Tutto vero, ma bisogna ricordare che il Regno Unito non ha mai stravisto per l’Unione Europea e ha vissuto l’appartenenza alla comunità continentale soprattutto come una opportunità sul piano del libero scambio commerciale. Viceversa, l’idea di una burocrazia sovranazionale che mette il naso negli affari interni non è mai andata a genio agli inglesi. Non va sottovalutato, insomma, il senso – profondamente culturale e identitario – dell’indipendenza di un’isola con tradizione (e ambizione) imperiale, al di là degli sconvolgimenti recenti provocati dalle trasformazioni economiche e sociali della globalizzazione.

 

Le conseguenze immediate

Che cosa succede adesso? La cancelliera tedesca, Angela Merkel, dice che “i negoziati futuri saranno difficili”, ma l’ambizione è di “avere una partnership eccellente”. Le fa eco la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Questa non è la fine di qualcosa, ma è l’inizio di eccellenti relazioni tra buoni vicini”. Parole piene di buon senso, ma il processo di uscita non sarà affatto facile. Senza dimenticare i problemi che deriveranno alla Ue sul piano militare e commerciale.

Bisogna ricordare poi che, nonostante la vittoria schiacciante, si apre per Boris Johnson un minaccioso fronte interno. Il fallimento del Dup nell’Irlanda del Nord nelle elezioni generali e la vittoria dello Snp in Scozia hanno messo in dubbio il futuro del Regno Unito. È scontato che gli scozzesi chiederanno un referendum bis per ottenere la secessione e riunirsi all’Unione Europea. Forte del suo successo locale, Nicola Sturgeon, leader degli indipendentisti dell’Snp, primo partito scozzese, spiega: “La Brexit ha trionfato in Inghilterra, ma la Scozia ha detto di nuovo no a Boris Johnson e alla Brexit. La Scozia desidera un futuro diverso da quello scelto dal resto del Regno Unito”.

 

La sconfitta storica del Labour

Nel frattempo, il Labour si lecca le ferite, sconfitto per la quarta volta in pochi anni. Una sconfitta storica: la peggiore dagli anni ’40 del ’900. Come spiega Andrew Adonis, politico e giornalista, già ministro nei governi di Blair e Brown, “il voto laburista è sceso sia tra i leavers che tra i remainers. In entrambi i casi, secondo i sondaggi, la prima causa è stato lo stesso Corbyn; in secondo luogo, il ridicolo manifesto di Labour, un elenco impossibile di tutto ciò che ognuno ha sempre desiderato; e solo come terza causa, la Brexit”.

Secondo Ipsos Mori, Corbyn ha goduto del più basso indice di gradimento medio di qualsiasi leader dell’opposizione dalla fine degli anni ’70. Alla lunga la mancanza di scuse e di chiarezza sull’antisemitismo gli hanno messo contro sia la comunità ebraica che una buona parte del suo elettorato storico. A proposito di Corbyn, Toby Perkins, il parlamentare laburista di Chesterfield, ha parlato di “monumentale impopolarità”.

Il leader del Labour aveva investito su un Manifesto abnorme per quantità di promesse (o minacce, dipende dai punti di vista…). Tasse sulle imprese e sui redditi alti, nazionalizzazioni per la gran parte dei servizi pubblici e per alcuni settori cruciali dell’economia britannica, una serie smisurata di misure di assistenza: dai servizi gratuiti per gli anziani alle tariffe ferroviarie ridotte, dalla banda larga gratuita all’abolizione delle tasse universitarie per gli studenti. Un programma sterminato e impossibile che sapeva tanto di socialismo in un solo paese. Jon Lansman, leader di Momentum, ha dichiarato: “Il manifesto era troppo dettagliato e troppo lungo. È stato un programma per 10 anni, non per il governo”.

Inoltre, la posizione sulla Brexit è stata assai ondivaga. Una tattica suicida che ha scontentato sia i leavers che i remainers. Probabilmente, questa vaghezza ha influito anche sulla fuga dell’elettorato tradizionale. Il Labour aveva dato per scontato il sostegno della classe operaia. Non è bastato promettere tasse sui miliardari per finanziare quegli investimenti nei servizi pubblici che avrebbero aiutato la popolazione meno abbiente. Gli elettori nelle vecchie città del carbone, dell’acciaio e della manifattura – il cosiddetto red wall, costituito da seggi come Bolsover, Rother Valley, Blyth Valley, Darlington e Redcar – sono passati ai Tories. È il segno di un malessere che il Labour attualmente non riesce a interpretare. Yvette Cooper, già presidente della Commissione per gli affari interni dei Comuni nell’ultimo parlamento, rincara la dose: “C’è un divario crescente davvero serio tra città e villaggi in questo paese. E il Labour sta diventando sempre più un partito delle grandi città. Non siamo più visti come un partito che difende i piccoli paesi e le campagne, anche se sono state le aree più colpite dall’austerità e dal cambiamento dei modelli economici”.

Il Labour ha parecchio da riflettere prima di riprendere il cammino. Di sicuro sa che il “sovranismo rosso” non è una linea vincente in Gran Bretagna. E che Jeremy Corbyn non sarà più la sua guida.

 

 

 

Tags:

Lascia un commento

L'indirizzo mail non verrà reso pubblico. I campi richiesti sono segnati con *