di Vittorio Ferla
Gli Stati Uniti non abdicheranno alla loro leadership globale, anzi “lavorerò per rafforzarla”. È la promessa di Kamala Harris nel discorso di investitura di giovedì notte alla convention democratica, durante il quale la candidata allo Studio Ovale ha esortato gli elettori statunitensi a respingere il “poco serio” Donald Trump.
L’alternativa minacciata dal tycoon è nota. Un’America isolazionista, concentrata su se stessa e sulla revanche del suprematismo bianco. Un’America che flirta con gli autocrati di tutto il mondo: da Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, a Viktor Orbán capo di governo dell’Ungheria, fino a Kim Jong-un, leader supremo della Corea del Nord. Un’America che guarda con simpatia ai leader populisti nazionali come Nigel Farage in Gran Bretagna e che, sotto la presidenza Trump nel quadriennio 2016-2020, aveva addirittura favorito la costruzione dell’internazionale populista globale promossa da Steve Bannon. Un’America che fa strame delle sue stesse regole costituzionali rinnegando il voto popolare e mette in discussione in risultati elettorali con l’attacco al Campidoglio, azioni degne di un qualsiasi stato delle banane sudamericano. Un’America che esalta la manipolazione della verità e il degrado dell’informazione libera auspicando un incarico di governo per un manipolatore seriale come Elon Musk. Un’America che abbandona l’Ucraina al suo destino, lasciando campo libero a un crudele despota, e scaccia dalla sua spalla l’Europa come se fosse una fastidiosa mosca. Un’America autoritaria e irresponsabile che diventa un modello di riferimento per i dittatori e un generatore sistematico di caos a livello globale.
Kamala Harris si oppone a tutto ciò e rappresenta l’America delle libertà e dei diritti, il faro del mondo libero che non rinuncia a coordinare le democrazie contro la minaccia delle autocrazie, nel solco della mission incarnata da Joe Biden fin dalla campagna presidenziale del 2020. Proprio Joe Biden è stato uno dei migliori presidenti della storia degli Stati Uniti sul piano degli affari internazionali: a parte l’abbandono (inevitabile e necessario) dell’Afghanistan, nel suo quadriennio alla Casa Bianca non ha mai fatto mancare il sostegno degli Usa alla causa della democrazia e della libertà. Oggi tocca a Kamala Harris raccoglierne e proseguirne l’eredità. Lo ha chiarito bene nel suo discorso allo United Center di Chicago, quando ha detto che, da presidente, garantirà che “l’America, non la Cina, vincerà la competizione per il 21° secolo” e ha promesso di “sostenere con forza l’Ucraina e i nostri alleati della Nato”. La candidata democratica ha pure attaccato Trump per “aver fatto amicizia con tiranni e dittatori come Kim Jong Un”, uno di quelli che “tifava” per la vittoria dei repubblicani a novembre. “Non vacillerò mai nella difesa della sicurezza e degli ideali americani, perché nella duratura lotta tra democrazia e tirannia, so dove mi trovo e so a che cosa appartengono gli Stati Uniti”, ha aggiunto Harris in piena continuità con la visione di Joe Biden.
Proprio per questo non rinuncerà a una proiezione muscolosa del potere degli Stati Uniti sulla scena globale. “Come comandante in capo delle forze armate, mi assicurerò che l’America abbia sempre la forza combattente più forte e letale al mondo”, ha giurato. Dopo le proteste nelle città americane di questi giorni contro Israele e per la liberazione della Palestina che hanno anche lambito la convention democratica di Chicago, c’era attesa per il posizionamento di Kamala Harris sulla crisi in Medio Oriente e in particolare nella Striscia di Gaza, oggi la questione internazionale in assoluto più spinosa per la Casa Bianca, che ha diviso il partito democratico e scatenato le frange più radicali contro l’attuale amministrazione americana. La candidata dem non si è tirata indietro. Il suo primo impegno sarà quello di “garantire sempre che Israele abbia la capacità di difendersi”, ribadendo le atrocità subite il 7 ottobre 2023. Tuttavia, “ora è il momento di raggiungere un accordo sulla presa degli ostaggi e un cessate il fuoco”, anche perché la portata della sofferenza umana da quando Netanyahu ha lanciato la guerra a Gaza è stata “straziante”. Ancora una volta ha cercato di conciliare la lealtà a Israele, la continuità con la linea di Biden e la comprensione per le proteste dei democratici filopalestinesi: “Il presidenteBiden e io stiamo lavorando per porre fine a questa guerra in modo che Israele sia sicuro, gli ostaggi vengano rilasciati, la sofferenza a Gaza finisca e il popolo palestinese possa realizzare il proprio diritto alla dignità, alla sicurezza, alla libertà e all’autodeterminazione”, ha detto.
Tra gli osservatori restano però delle perplessità. In primo luogo, sembra che la posizione di Harris sia allo stato attuale molto più critica nei confronti di Israele e che la vicepresidente percepisca in realtà come più urgente l’interruzione della guerra che colpisce migliaia di civili rispetto a ogni altra priorità di Israele. In secondo luogo, c’è una perplessità pratica: i colloqui di Doha sembrano destinati a fallire dimostrando che è difficile concordare un cessate il fuoco capace di accontentare allo stesso modo le due parti in causa. È noto infatti che Hamas pretende la totale interruzione del conflitto e il ritiro delle truppe israeliane mentre il governo di Netanyahu non è disposto a rinunciare al controllo del corridoio Philadelphia, il “tubo di ossigeno” di Hamas, attraverso il quale passavano regolarmente a Gaza le armi usate per gli attentati terroristici. E a questo punto appare molto probabile che la crisi di Gaza non si risolverà prima del 5 novembre. A chi toccherà ereditare il lavoro diplomatico del segretario di stato Usa Anthony Blinken lo scopriremo soltanto dopo.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).