di Claudia Mancina
Affermare la vocazione maggioritaria del Pd significa anzitutto affermare il ruolo nazionale e di governo del partito.
Il ruolo di governo si esercita anche dall’opposizione, a condizione di elaborare e offrire al paese una proposta complessiva di sviluppo, che comprenda strategie di risoluzione dei più gravi problemi che lo affliggono. E’ questo che deve fare il Pd, mettendo in campo tutte le sue capacità di pensiero e di azione.
Leadership, organizzazione e cultura politica
Che cos’è un partito?
Un partito è costituito da tre elementi: la leadership, l’organizzazione, la cultura politica.
Il Pd aveva nel suo Dna, sia da parte Dc che da parte Pci, una tradizione di leadership oligarchica. Su questa tradizione si è abbattuto il ciclone Renzi, ma la sua vicenda ha dimostrato che il leader, per quanto forte, non basta, se non si mette in campo una riforma dell’organizzazione e l’elaborazione di una nuova cultura politica.
Le primarie sono certamente uno straordinario processo democratico di selezione del leader, al quale non si deve rinunciare; ma non bastano a fare un partito.
In questi anni abbiamo visto che – malgrado una leadership fortissima – il Pd non ha risolto la sua debolezza strutturale su vari piani: il rapporto tra centro nazionale e articolazioni regionali e locali; il funzionamento degli organismi dirigenti, che dovrebbero essere sedi di confronto politico ma troppo spesso non lo sono; il rapporto tra iscritti e non iscritti; ma soprattutto l’assenza di canali di rapporto con le realtà che stanno fuori del partito: associazioni, categorie, gruppi di vario genere, sia strutturati sia spontanei e concentrati su un solo tema. Un partito non può sviluppare la sua forza nella società se non ha una rete di questo tipo.
E’ il tema della cosiddetta disintermediazione: prima ancora che un errore, un’illusione. L’illusione che si possa fare da soli, senza mediazioni tra il leader e i cittadini. La società in cui viviamo è attraversata da molteplici linee di frattura e da altrettante linee di organizzazione, che difficilmente possono essere completamente verticalizzate. Senza rapporto con i corpi intermedi il leader si ritrova solo. Va sviluppato il partito come soggetto vitale capace di mettersi in relazione con pezzi di società. Fare rete: ricostruire legami con la società, in forme aperte, dialettiche, è vitale per ricostruire un ampio consenso.
Altrettanto vitale è sviluppare una cultura politica autonoma, che riesca a cambiare il discorso pubblico, o la narrazione, come si dice. E’ un problema di comunicazione, purché si intenda che non c’è comunicazione efficace senza idee forti da comunicare. Dunque è necessario che il Pd riprenda a pensare, riprenda a combattere per sottrarre l’egemonia culturale alle forze populiste e di destra.
Il caso dell’immigrazione
Prendiamo il caso dell’immigrazione. Si tratta di un problema sentito come tale da tutti i popoli europei. Per questo non è sbagliato dire che c’è un rischio per la democrazia; non sono i migranti in quanto tali a rappresentare un rischio, ma la reazione dei cittadini, trascinati dalla paura e dall’insicurezza.
C’è chi specula sulla paura, lo vediamo ogni giorno. Ma la risposta non può essere ignorare o peggio demonizzare la paura. Se la politica dev’essere il luogo del disaccordo e della composizione del disaccordo, non si può contrapporre la pura razionalità alle emozioni. Bisogna impegnarsi a governarle, a indirizzarle in un’altra direzione. Per fare questo bisogna anzitutto riconoscerle.
Il Pd non può limitarsi a testimoniare una visione giusta e razionale dei diritti umani, se vuole convincere i nostri concittadini. Bisogna proporre politiche in grado di accogliere i migranti in modo ordinato e insieme di proteggere i cittadini: revisione del trattato di Dublino, ritorno alle missioni europee nel Mediterraneo, e soprattutto riapertura di flussi regolari di cui abbiamo bisogno e che sono l’unica vera alternativa agli sbarchi.
Questo è il modo di essere un partito a vocazione maggioritaria.