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Il “sindaco” Bonaccini e le 5 lezioni dall’Emilia Romagna

Alberto De Bernardi venerdì 7 Febbraio 2020
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di Alberto De Bernardi

 

Nella settimana appena trascorsa si sono verificati due eventi che hanno cambiato il quadro politico: le elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria e la prima Assemblea nazionale di Italia Viva. Innanzitutto i risultati elettorali in entrambe le regioni e le informazioni sulle dinamiche del voto elaborate dall’Istituto Cattaneo e da altri enti consimili consentono di definire meglio gli elementi costitutivi di quella scadenza elettorale da cui valutare i comportamenti e le scelte dei soggetti politici coinvolti.

 

1) Un’altra regione persa

Innanzitutto il centrosinistra ha perso un’altra regione, e malamente con circa 20 punti di distacco dal centrodestra. Prosegue dunque il declino elettorale delle forze di sinistra che non hanno ancora invertito la tendenza a perdere consensi rispetto alle destre iniziatasi drammaticamente nel marzo 2018. L’entusiasmo per la vittoria in ER, non può e non deve nascondere questo elementare dato di fatto: il campo di forze che si richiamano al riformismo, all’europeismo, all’antifascismo, al globalismo sono ancora fortemente minoritarie nel paese e la loro narrazione politica risulta ancora troppo balbettante e incerta su molte questioni per essere competitiva nel confronti del sovranismo populista. Anche nella roccaforte “rossa” questo progetto ha messo in campo una forza elettorale considerevole in grado di rendere contendibile il governo della regione dopo settant’anni di egemonia della sinistra.

 

2) Il sindaco dell’Emilia Romagna

Il successo in ER è avvenuto perché si è creata una situazione per molti aspetti eccezionale, che non derivava soltanto dalla percezione che una vittoria del “salvinismo” in questa regione sarebbe stata una catastrofe politica con conseguenze che andavano ben oltre il carattere locale della sfida – il movimento delle “sardine” né è l’esempio più evidente, quanto piuttosto dalla capacità di un presidente in scadenza di trasformarsi in leader politico e di impostare una campagna elettorale straordinaria: una sorta di “sindaco” di tutta la regione che combatte l’avversario in nome del “buon governo”, cioè servendosi di un’arma sulla carta perdente rispetto alla forza che in questa fase possiede la demagogia e l’ideologia propria del sovranismo populista.

Bonaccini con grande coraggio ha contrapposto alle mitizzazioni ideologiche la realtà, resistendo alla forza indubbia di uno dei più capaci “imprenditori politici della paura” di cui disponga la destra europea. Questa scelta a rimobilitato gli elettori che sono tornati a votare dopo il collasso della partecipazione nel 2014 e ha obbligato a scegliere tra riformismo e populismo, spostando su Bonaccini molti elettori moderati che non si riconoscevano nell’estremismo della Lega e di FdI: il collasso di Forza Italia che di fatto scompare dal panorama politico regionale né costituisce la migliore conferma.

 

3) La seduzione clientelare

Questa situazione eccezionale non si è presentata in Calabria, dove era impossibile esibire lo stesso “buon governo” a tal punto da imporre al presidente Oliviero, che pur aveva vinto nella tornata precedente con oltre il 60% dei consensi, un passo indietro, costato scontri, tensioni e divisioni, che non potevano essere superati da un candidato debole e incolore come Callipo. Nel giro di 5 anni il Csx perde quasi la metà dei consensi. Ma qui l’avversario non era solo, e forse nemmeno tanto Salvini, quanto il reticolo clientelare rappresentato dai candidati di liste di centrodestra vicine a Forza Italia e all’Udc che hanno sostenuto con successo la candidatura di Iole Santelli. In un contesto di scarsa affluenza al voto il modello di costruzione del consenso elettorale basato sul controllo trasformista dei voti da parte di notabili locali ha prevalso persino sulla forza carismatica di Salvini, che ha perso voti e elegge qualche consigliere in una coalizione di cdx di cui non possiede però la golden share.

 

4) Il declino del M5S

Alla priva del voto regionale il progressivo declino del M5S si accentua, fino al punto da collocarlo al nord come al sud in un’area di marginalità e irrilevanza. Dopo due anni di governo le sue proposte assistenzialiste e stataliste non solo si sono frantumate di fronte al solido riformismo emiliano, ma hanno fallito anche in Calabria, che pur era stata beneficata soprattutto dal Reddito di cittadinanza. La Calabria insegna che di fronte al fallimento del riformismo, dopo un iniziale sbandamento populista, gli elettori di quella regione tornano a rivolgersi al tradizionale rapporto clientelare tra governanti e governati che rappresenta un modello di organizzazione sociale assai consolidato nel Mezzogiorno; assai più debole di come era nella Prima Repubblica, stretto intorno alla Dc e ai partiti di governo, ma sufficiente per garantire la riconquista della regione, quando la partita tiene fuori dal campo quasi il 60% dell’elettorato.

 

5) La fine di Forza Italia

Se confrontiamo il 2,5% preso da FI in ER e il 12,5% ottenuto in Calabria abbiamo una raffigurazione effettiva del profilo politico del partito di Berlusconi dopo un decennio dalla fine del suo ultimo governo. Terminata la sua capacità egemonica sul cdx, che è passata alla Lega e a FdI e al loro progetto nazionalista di estrema destra, FI si è trasformata in una ridotta di ceto politico che è tanto più forte quanto più funzionano meccanismi clientelari di controllo dei voti. Per questo il partito si meridionalizza, mentre si ridimensiona fortemente laddove il suo elettorato tradizionale, fatto di piccoli imprenditori e commercianti che si arricchiscono prevalentemente grazie all’evasione fiscale, alla deregolamentazione del mercato del lavoro e alla riduzione del welfare senza i costi dell’innovazione tecnologica, della concorrenza e dell’integrazione nel mercato mondiale, ha trovato nel sovranismo di Salvini la sua identità.

Lezioni da trarre da questi 5 punti:

 

1) La foto stracciata di Narni

La vittoria di Bonaccini e del centrosinistra emiliano-romagnolo in una Italia ancora fortemente egemonizzata dalla destra radicale e stata possibile solo perché è emerso un leader (altro che un noi!) capace di rappresentare quella domanda di buon governo attraverso una evidente e risoluta agenda riformista, nella quale coniugare crescita, sostenibilità ambientale, inclusione sociale, sviluppo culturale. In ER la “foto di Narni” non ha fatto nessuna comparsa ed è stata definitivamente archiviata. L’asse “demopopulista” che quella foto incarnava basato sul rapporto tra Pd, sinistra radicale e M5S, è stato cancellato dalla scelta di Bonaccini di costruire un’alleanza di csx che teneva insieme forze di sinistra, liberalprogressiste e civismo democratico, isolando il populismo antipolitico, secondo un modello più “ulivista” che demopopulista.

 

2) Lo sguardo distorto del PD

Questa lezione emiliana non viene però rielaborata politicamente dal Pd, che a poche ore dal voto, con il M5S allo sbando, mentre Zingaretti festeggiava la vittoria, con i capi effettivi del partito, Bettini e Franceschini, riproponeva ancora la foto di Narni come riferimento strategico anche per incipienti elezioni regionali di maggio 2020. Al di la degli esiti che la pressione del Pd nei confronti dei 5s per alleanze regionali sortirà, sorprende che i risultati elettorali non suggeriscano al Pd una riflessione che lo spinga a uscire dalla trappola dell’ “unità della sinistra” che sorregge quella strategia, e che si basa sulla convinzione errata, che il M5S sia una forza di sinistra nella quale si è incapsulata una parte del suo “popolo”, e di guardare a quelle sinistra liberale che si sta organizzando in IV, in Azione e in +Europa, ma anche i liste civiche centriste.

 

3) Una nuova area politica

In effetti un dato politico significativo del voto in ER è proprio l’embrionale formazione di quest’area che per una serie di circostanze tattiche si è riconosciuta maggioritariamente nella Lista del Presidente e che nel suo complesso ha superato il 7% di consensi, assai superiori a quelli ottenuti dal M5S. E’ una indubbia novità politica, che speriamo gli egocentrismi dei loro capi non ammazzino nella culla perché invece andrebbe rafforzata per raccogliere il consenso elettorale della sinistra liberale e del centro democratico e progressista, senza il quale la lotta contro il populismo sovranista in Italia come in tutto il mondo risulta perdente. Questo polo che potrebbe calamitare molti voti liberali in uscita da FI, ormai al termine della sua parabola politica, e per ora parcheggiati nell’astensione, a ben poco a che vedere con una collocazione centrista, perché in effetti riguarda una vasta area di idee e progetti che non si riconosce nella deriva corbyniana che ha affascinato componenti non piccole della socialdemocrazia europea e della sinistra americana tra Sanders e Ocasio Cortez, ma che è saldamente ancorata alla tavola dei valori del progressismo democratico e del riformismo socialista.

 

4) La missione di Italia Viva

Questo processo delinea una grande responsabilità di Italia Viva, oggi il partito più forte di questa galassia allo stato nascente; persino definisce meglio la sua stessa ragion d’essere che deve essere quella di centro federatore del campo liberalprogressista, dopo che il Pd ha smarrito la vocazione maggioritaria e si sta chiamando fuori dal ruolo di aggregatore delle forze riformiste che costituiva la ragione della sua fondazione. L’assemblea nazionale ha riconfermato il profilo rigorosamente riformista del movimento fondato da Renzi e ha dato una prima struttura organizzativa al partito, ma nel definirne la missione antipopulista e antisovranista come capisaldi della propria tavola dei valori, non ha delineato con la stessa forza la necessità dell’ impegno “federatore”, che è invece la chiave di volta per la formazione di questa nuova area politica. Lo stare dentro o fuori la maggioranza di governo è un vincolo tattico che non modifica l’omogeneità ideale e politica di questa area: quindi l’impegno a lavorare per l’integrazione può mettersi in movimento lo stesso.

 

5) La scatoletta e l’apriscatole

La quinta lezione riguarda il M5S. Perché a meno di 2 anni da trionfo il M5S sembra avviato in una spirale viziosa che lo sta postando alla disfatta? A me sembra che le ragioni di fondo siano due.

Innanzitutto un movimento antisistema non può diventare “sistema”: se si moltiplica la forza politica “sparando sul quartier generale”, in nome di un confuso miscuglio di antiindustrialismo, di statalismo, di assistenzialismo e di giustizialismo quando si entra nel quartier generale la sua vocazione originaria e la sua ragion d’essere costitutiva diventano ostacoli insormontabili per un efficace programma di governo che deve fare i conti con vincoli, poteri istituzionali, opposizioni politiche e sociali.

Se poi si è commesso il grave errore di rifiutare il sistema maggioritario, che consentirebbe anche con una maggioranza che oscilla introno al 30% al partito vincente di governare, e di fare i paladini del proporzionale puro combattendo una cieca battaglia contro la riforma costituzionale del 2016, l’esito non può essere che tragico, perché un movimento di questo genere non può entrare in una logica di alleanze parlamentari: non può reggere alleanze con la destra sovranista, perché il suo populismo è intriso di confuse aspirazioni di sinistra (giustizia sociale, rifiuto dei poteri forti, lotta alle caste) incompatibili con il quadro di valori ideologici della Lega o di FdI; ma nemmeno con la sinistra perché seppur contrassegnata nelle sue culture politiche elementi populistici, il suo solido impianto riformista collide con la innata vocazione del populismo a sovrapporre l’ìdeologia alla realtà. Siamo di fronte a un contraddizione irresolubile: né un forno (destra o sinistra) né due forni (destra e sinistra a seconda delle convenienze).

La seconda ragione riguarda la classe dirigente: l’uno vale uno ha prodotto una gruppo di comando politico inesistente, che ha vinto promettendo la rivoluzione, ma non sa come si fa ad aprire il parlamento come una scatoletta di tonno – Mao ha insegnato che le rivoluzioni non sono un pranzo di gala –, ma men che meno è all’altezza del compito difficilissimo di governare la trasformazione di una forza antisistema in un partito organico al sistema politico vigente. Di Maio, Grillo, Casaleggio, Di Battista, Fico sono personaggi che sopravvivono ancora per poco a un fallimento annunciato perché il passaggio ad antisistema e forza di sistema non è quasi mai riuscito a nessuno e men che meno può riuscire a loro.

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