di Giovanni Cominelli
L’Italia è un Paese storto, dal quale non si potrà mai cavare qualcosa di diritto, come accade al famoso legno di Kant? Questo è l’interrogativo che esplode da sotto la crosta delle consultazioni, dei talk-show, degli editoriali, degli sfoghi sui social, relativi alla crisi politica in corso.
La risposta prevalente è no, nulla di diritto! No, perché il Paese sta affondando. No, perché il Paese va alla deriva. No, perché sta sull’orlo dell’abisso… No, perché la società italiana è devastata. No, perché la politica è un malato terminale…
Il Paese sta attraversando da qualche decennio una crisi profonda, alla quale ultimamente il Covid-19 ha porto inaspettatamente uno specchio in cui riflettersi: è una crisi spirituale, una crisi di senso, quella di un Paese che non sa più la propria strada e il proprio destino. Se gli elettori hanno delegato ad una classe politica dirigente la missione di tracciare la rotta, questa classe appare incapace di individuarla. Di qui il senso di smarrimento e il ripiegamento nel rancore, nella rabbia, nello scetticismo, nel pessimismo, nell’assenza.
Che cosa sta accadendo? Perché la classe dirigente si sta suicidando?
Il virus mortale di questa classe politica, e dei mass-media al suo servizievole seguito, si chiama populismo. Non c’è virus che sia stato più microscopizzato di questo da una legione di sociologi, filosofi, psico-sociologi e psico-politologi. Il populismo del popolo è, ormai, ben conosciuto: democrazia diretta, no alla casta, giustizialismo, assistenzialismo, antiscientismo, no-vax, complottismo globale… Grazie ai nuovi mass-media, il populismo è riuscito a condensarsi in movimento politico e in partito, infilandosi negli spazi, in linea di principio rifiutati, della democrazia rappresentativa. Il M5S oggi è il partito più rappresentato nel Parlamento italiano. Possiamo chiamarlo approssimativamente “populismo dal basso”. Se il suo destino partitico appare segnato, la sua cultura ha fatto egemonia nei piani alti della politica. Il populismo dal basso è diventato “populismo dall’alto”. E questo è assai più pericoloso per la democrazia.
Che il virus populistico abbia infettato l’intera sistema politico lo si deduce facilmente da una elementare analisi del linguaggio. Prendete il lemma “Italiani”. Lanciato da Salvini con “Prima gli Italiani”, ad imitazione del già tramontato “America First”, “Italiani” è il vocabolo più ripetuto della neo-lingua politica. Infesta tutte le antifone recitate a velocità spaziale dai vari portavoce di partito nei TG: “Gli Italiani ci dicono, gli Italiani pensano, gli Italiani vogliono, gli Italiani sanno, gli Italiani decidono”… E, si intende, il portavoce di partito approfitta del momento per autoproclamarsi ipso facto “la voce degli Italiani”. Solo a destra questi squilli di tromba?
No, anche a sinistra! Alla fatale domanda rivolta al segretario del PD Zingaretti: “un nuovo governo Conte per fare che?!”, egli ha risposto candidamente: “L’agenda ce la danno gli Italiani!”. Già, proprio così! Ecco il populismo disvelato. L’agenda del “che fare” non è più la faticosa costruzione intellettuale di una classe dirigente, che si confronta con la verità del Paese, con i suoi interessi variegati e confliggenti, e propone all’intero Paese una scelta, una selezione, una sintesi. No, l’agenda arriva consegnata direttamente dagli… Italiani.
È una risposta paradigmatica, che fotografa, a sua insaputa, un intero modo di concepire la politica. Il populismo qui non è più una sindrome del popolo, è una cultura politica della classe dirigente. Eppure ciò che realmente risulta, oggi, sono solo i desiderata settimanali degli Italiani, interpellati da agenzie di sondaggi. Non può arrivare niente altro, nessuna visione, nessuna soluzione. Qui, si aprono due strade per i partiti:
a) assemblare i bisogni e i desideri, metterli in bella copia, chiamarli programmi e ributtarli in piazza per vederseli, eventualmente, rimbalzare più gridati;
b) filtrare i bisogni e i desideri, in base a una tavola di valori, alla storia del Paese, alla sua collocazione internazionale, ai fondamentali dell’economia ecc… e farne un programma di governo per l’intero Paese.
Nel primo caso, la politica si offre come followership; nel secondo caso come leadership. Quasi tutti i partiti della Seconda Repubblica hanno scelto la strada della followership: “Vado dove mi porta il popolo!”. Della democrazia che è consenso+delega, hanno preso sul serio solo il primo, sono restii a esercitare la responsabilità della seconda. Donde viene questa degenerazione tumorale della democrazia? Qual è l’intreccio di pluricause strutturali e pluricause sovrastrutturali?
A costo di espormi all’accusa di idealismo metafisico estremo, credo che al fondo stia quel fenomeno che già nel 1943 Dietrich von Hildebrand definì “la detronizzazione – die Entthronung – della verità”, ad opera dei totalitarismi del ‘900, che hanno lasciato tracce profonde nella concezione e nella pratica della politica, soprattutto in Italia. Ciò che conta, ai fini del consenso e dell’esercizio del governo e del potere, non è la realtà delle cose, non il principio di realtà, non il sapere, non la scienza; conta l’accensione dei sentimenti e dei risentimenti, delle emozioni e delle rabbie, quali basi del consenso e del potere.
Solo che se il potere non è appoggiato alla realtà delle cose, se si fonda solo su di sé, diventa intimamente totalitario. Non si dà più oggettività, non si dà più etica pubblica. Se è evidente che ciascun partito costruisce un proprio filtro, dal quale esce una propria verità, il metodo di costruzione del filtro-programma deve muovere, in ogni caso, dalla realtà. Staccata dalla realtà, al punto che non è in grado dopo mesi di costruire il PNRR, in cui si condensa il futuro del Paese, la classe dirigente sta evaporando, si sta sciogliendo. E con essa il Paese. Esiste un vaccino antipopulista? Sì, che ciascuno, dovunque si trovi, si dedichi al “compito della verità”. Sarebbe il compito dei ”chierici”, se da tempo non si fossero acriticamente messi al servizio del potere.
Editoriale pubblicato su santalessandro.org il 30/01/2021
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.