di Umberto Ranieri
Zingaretti si dimette. Nel farlo ricorre a parole forti: si vergogna “che nel Pd da venti giorni si parli solo di poltrone e primarie” mentre l’Italia ha da affrontare problemi spinosi, dalla pandemia alle difficoltà economiche. Un atto di accusa grave quello di Nicola. Le dimissioni di un segretario, generalmente, si motivano per l’incalzare di una critica politica e di un disegno politico alternativo. Così accade nella dialettica interna ai partiti, così è accaduto nella tormentata storia del Pds, dei Ds e del Pd. Per Nicola si tratta di poltrone.
Se è così, occorre che egli faccia chiarezza su chi ha ridotto a questo la dialettica interna al Pd. Vanno fatti nomi e cognomi. Questo è un punto su cui non si fanno allusioni. Si parla chiaro. Lo si deve a quell’insieme di forze che hanno a cuore le sorti del Pd. E sono ancora numerose nel Paese.
E veniamo alla politica. Se si guarda al comportamento del Pd nel corso della crisi politica aperta da Italia Viva si vedrà che alla unanimità si sono concluse le riunioni della direzione del partito sulle scelte da compiere. Tutti hanno sostenuto l’accordo con i grillini come asse della politica del Pd, tutti hanno accolto senza incertezze la esaltazione smodata di Conte, tutti hanno difeso la formula ”Conte o elezioni”. Una linea disastrosa che tuttavia non ha trovato negli organismi dirigenti del partito voci contrarie.
I cosiddetti capi corrente che si proclamano riformisti non hanno avuto nulla a che ridire. La stessa richiesta di congresso anticipato nei giorni successivi alla formazione del governo Draghi non è mai diventata una perentoria richiesta politica. E allora? Perché le dimissioni? Se è tutta una questione di poltrone? La verità è che ci sono nodi politici da affrontare e discutere. Il primo riguarda il modo in cui si è condotto il Pd durante la crisi.
La difesa ad oltranza del governo Conte fino ad accettare che a sostenerlo potesse farlo una pattuglia di parlamentari disperati al timore di perdere il seggio con lo scioglimento delle Camere: una condotta indegna. La esaltazione di Conte, definito “la carta decisiva del fronte democratico”: autolesionismo puro. Un sostegno a Draghi, si direbbe a Napoli, espresso “con la corda al collo” (risparmio la versione dialettale).
A venire meno, in quelle settimane, è stata la capacità del Pd di assolvere, uso una parola grossa, ad una funzione dirigente nella crisi politica, anticipando la iniziativa di Italia Viva e esigendo una svolta nella condotta del governo e del premier. C’è poi il nodo di fondo che riguarda l’indirizzo politico del Pd ridotto ad un “abbraccio acritico” con i grillini e la trasformazione di una convergenza momentanea in una alleanza strategica con 5Stelle.
Una alleanza che metterebbe capo ad “una piccola coalizione” che non andrebbe lontano e lascerebbe la destra padrona del campo. Questo il capolavoro di Zingaretti, dei capi corrente che si autodefiniscono riformisti e degli ideologi che li incoraggiano a chiudersi in un vicolo cieco. Queste le ragioni per le quali le dimissioni (non solo di Nicola), se non ci fossero la pandemia e il dovere di sostenere il governo Draghi, avrebbero un senso.
Presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa. Docente a contratto, insegna Storia dell’Europa all’Università La Sapienza di Roma, dove, Economia dei paesi in via di sviluppo all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Politica estera dell’Unione europea all’Orientale di Napoli. È stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature (XII, XIII, XIV, XV) eletto nelle liste Pds, Ds e, infine, Pd. È stato anche Presidente della Commissione “Affari esteri e comunitari” della Camera dei deputati. Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri dal 1998 al 2001 nei governi D’Alema I, D’Alema II e Amato II.