“The Vanishing American Corporation”. La scomparsa dei grandi gruppi americani è il titolo di un libro di successo di Gerald F. Davis, docente di sociologia all’Università del Michigan, ma è anche il tema di una discussione che, da quasi dieci anni, quelli della grande crisi economica, sta investendo gli Stati Uniti. In Europa, e soprattutto in Italia, l’eco di questo dibattito giunge molto debole e, come spesso accade, con gran ritardo. Che il mondo stia profondamente cambiando è, ormai un dato acquisto, quasi una constatazione di dominio pubblico. Non altrettanto chiare sembrano, però, essere le implicazioni di questa mutazione e quale sia la direzione del nuovo modello produttivo e sociale. Sempre che un modello unico sia ancora prefigurabile e auspicabile.
Nel dibattito americano, la portata e la consapevolezza della radicale rivoluzione parte dal dato dall’impressionante crollo dei grandi gruppi americani.
Al fallimento di numerose società storiche, prima fra tutte la Lehman Brothers, quella più carica di simboli per la storia dell’economia americana, si sommano la scomparsa di altre, come la Bethlehem Steel, e lo spezzettamento di altre ancora come la multinazionale dell’informatica, la californiana Hewlett Packard o l’Alcoa che, fondata in Pennsylvania nel 1886, è stata, per oltre un secolo, una delle più grandi produttrici mondiali di alluminio.
Le grandi imprese nel XX secolo hanno creato lavoro e reso possibili retribuzioni crescenti per milioni di persone, ma anche la certezza di crescita e di formazione professionale continue, di assicurazioni sanitarie e pensionistiche che garantivano certezze di vita. Hanno reso possibili, allo stesso tempo, profitti per industriali e azionisti che, considerati elementi di traino dell’intera società, erano più che legittimati. Un intero ciclo, non solo economico, ma anche politico e sociale ha visto il protagonismo dei grandi gruppi industriali.
Oggi, quel sistema mostra tutti i suoi limiti e le grandi dimensioni aziendali, rovesciando gli assunti del ciclo precedente, si sono fatte obsolete diventando esse stesse causa di iniquità, crescita delle disuguaglianze e instabilità. E’ in corso, dunque, una grande transizione la cui origine è da ricercarsi tra diversi fattori primo fra tutti la rivoluzione tecnologica con i suoi effetti potenzialmente dirompenti, sia essi positivi che negativi.
La trasformazione in corso riguarda, inevitabilmente e con dinamiche identiche, anche il sistema creditizio. Nell’analisi e nel dibattito che riguarda questo settore, soprattutto in Italia, si avverte un forte ritardo ideologico. Se la grande banca, la banca universale, che fa sia attività tradizionale di raccolta e prestito, sia attività finanziaria e di affari, era considerata il solo possibile modello di banca possibile al quale ogni istituto di credito non poteva non uniformarsi per continuare ad operare in maniera produttiva, oggi quel modello di banca dalle dimensioni globali, come è evidente nel resto del sistema industriale, è diventato elemento di destabilizzazione ed è profondamente messo in discussione nella sua essenza.
Oggi, le dimensioni ottimali, anche dell’impresa creditizia, che più possono soddisfare le esigenze di crescita, di rilancio e di sviluppo non sono quelle di dieci o venti anni fa. Proprio in Italia, dove il peso delle Piccole e Medie Imprese è stato ed è storicamente maggiore rispetto ad altre realtà economiche europee, tutto questo dovrebbe essere più facilmente comprensibile e, invece, si continua pigramente a proporre un modello che, da oltre dieci anni, è considerato superato e, per certi versi, anche dannoso.
Non servirebbe guardare lontano per capire che la costruzione di un sistema economico e sociale diverso da quello conosciuto nel secolo scorso e che negli anni ’80 ha visto insieme il suo momento di massima espansione e l’inizio della fine, si stia già definendo nel corso delle cose.
Basterebbe rivolgere il proprio sguardo alle esigenze dell’economia reale, alle necessità dei singoli territori, alle comunità locali, alla rete delle Piccole e Medie Industrie che continuano a rappresentare la ricchezza del nostro Paese e che, anche nella fase più difficile della crisi, hanno reso possibile una tenuta sociale altrimenti impossibile. Soltanto guardando con favore a queste realtà si potranno accompagnare gli attuali cambiamenti epocali riscoprendo la validità di sistemi che, nella sbornia generale dell’era della globalizzazione, erano considerati superati, ma che alla lunga si sono mostrati più resistenti.
Del resto, in alcuni settori produttivi, come ad esempio in quello della produzione agricola e alimentare, la riscoperta di questi valori, insieme allo strumento della cooperazione è oggi un elemento vincente sia sotto il profilo economico che sociale ed occupazionale.
Il credito popolare farà, come sta facendo, la propria parte e sarà determinante in un futuro modello di sviluppo che, se non ancora ben definito, di certo avrà nella pluralità e nella biodiversità il proprio punto di forza.
Segretario Generale dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari