di Alberto De Bernardi
A due giorni dal dibattito parlamentare che ha respinto le mozioni di sfiducia nei confronti del ministro della giustizia Bonafede, è possibile trarre qualche prima indicazione che vada oltre l’elenco dei pii desideri che hanno occupato giornali e social dopo l’intervento di Matteo Renzi, il più atteso dall’opinione pubblica e dal “palazzo”. Infatti, alla luce del duro scontro sulla prescrizione che aveva contrapposto Italia Viva a Bonafede e all’intero governo, poi sopito dall’esplosione pandemica, a cui era succeduto quello altrettanto forte sulla questione delle carceri, che aveva poi portato alle dimissione del Capo del Dap Basentini di fronte alle rivolte dei carcerati e alle scarcerazioni dei boss della malavita organizzata, si era diffusa l’opinione che Renzi avrebbe appoggiato per lo meno la mozione di +Europa, costringendo il ministro alle dimissioni. Ovviamente questa aspettativa si era diffusa anche perché il senatore di Rignano non aveva fatto nulla per disinnescarla, riconfermando in più di una occasione il giudizio negativo nei confronti di un ministro che fin dai suoi esordi politici si era ritagliato l’immagine di campione del giustizialismo più estremista e adombrando una resa dei conti.
E’ probabile che le incertezze di IV non fossero solo tattica, per alzare il climax in vista del voto, ma nascessero anche dal tentativo di saggiare la disponibilità del PD a cambiare cavallo alla guida del dicastero di via Arenula; in questo caso la sfiducia parlamentare nei confronti di Bonafede non si sarebbe tradotta nella caduta del governo ma nella sostituzione di un ministro sgradito ad un’ampia parte della maggioranza con un altro più disposto ad ascoltare le voci di quanti giudicavano obbrobri giuridici i provvedimenti presi dal governo giallo-verde e di fatto avallati dal Conte 2, ma che anche contestavano la confusione, le inadempienze e le lentezze della gestione della giustizia di fronte ai mali sempre più gravi che l’affliggono.
Ma alla vigilia del voto la decisione congiunta di Conte e Zingaretti di mettersi a usbergo del peggior ministro della giustizia della storia d’Italia, minacciando la crisi di governo in caso di sfiducia hanno spazzato via ogni dubbio sulla stabilità dell’asse demopopulista, obbligando Renzi a cambiare strategia e a ottimizzare dal punto di vista politico i vincoli che le due forze maggiori avevano posto alla sua azione.
Per cogliere il passaggio chiave di Mercoledì 20 maggio bisogna riflettere su come possono e devono stare i riformisti in un governo che hanno contribuito a fondare, e su come sia possibile continuare una battaglia antipopulista mentre si sta realizzando un asse sempre più stretto tra Pd e 5S che ha per posta la ridefinzione degli equilibri politici generali e del profilo stesso della sinistra. E’ un percorso strettissimo e difficilissimo, ma che va costantemente ribadito in vista del futuro, anche in un momento nel quale si sceglie di respingere le mozioni di sfiducia, una delle quali conteneva non pochi elementi per essere sostenuta.
Ma la consapevolezza che una crisi politica in questa fase delicatissima della vita nazionale sarebbe un imperdonabile errore e che al di là delle affermazioni roboanti, questo governo non abbia effettive alternative, non basta a giustificare la scelta fatta da IV. Bisogna sempre ritornare al quell’agosto 2019 nella quale Renzi si assunse la responsabilità di mandare a carte quarantotto il governo giallo-verde e di favorire la formazione del governo Conte 2 su un programma europeista e antisovranista, capace di ridimensionare le istanze populiste del M5S.
L’obbiettivo di evitare la ricomposizione del fronte sovranista populista resta la bussola fondamentale che ha progressivamente ottenuto non pochi risultati che riguardano il paese e gli interessi materiali dei suoi cittadini, esposto a una crisi eccezionale, ma anche il quadro politico. Infatti, anche grazie al nuovo protagonismo della UE e alla domanda di riforme che emerge dalla lotta al Covid-19, quel fronte si sta fortemente sgretolando, con una crisi irreversibile del M5S, diventato ormai un insieme di gruppi di potere a presidio di posti e prebende ma senza progetto politico, e con le difficoltà crescenti della Lega incapace di uscire da una postura ideologica del tutto fuori luogo e fuori tempo.
La sfida dalle formule astratte come quella del governo di unità nazionale che sono pii desideri, deve inevitabilmente restare ferocemente attaccata ai contenuti, ai progetti, e agli obbiettivi in una azione di costante pungolo: è quel “far ballare il governo sulle punte” evocato da Giuliano Ferrara a definire il profilo dell’azione politica dei riformisti nel governo: questo è accaduto in passato nella elaborazione della finanziaria 2019, nella lotta per la “giustizia giusta” in occasione del dibattito sulla prescrizione, e soprattutto nella gestione della pandemia, sia nella fase 1 della chiusura, che nella fase 2 dell’elaborazione dell’enorme piano di interventi a sostegno dell’economia per riaprire davvero il paese.
Solo una stampa asservita e miope o forze politiche chiuse a presidio di una identità e di un progetto politico sempre meno credibile, possono confondere tutto questo con la ricerca della “visibilità” dell’“antipatico” di Rignano: è invece un disegno politico – come tutti discutibile e criticabile, ma chiaro – che cerca costantemente nella sua azione concreta di riconfermare le ragioni della scelta dell’agosto del 2019, mentre ribadisce l’alternativa antipopulista, che in qualche occasione riesce bene, in altre meno. Ma in questo cammino irto di difficoltà e per molti aspetti sproporzionato rispetto alla consistenza quantitativa di IV, il paradigma riformista della sinistra liberale ha definito con maggior nettezza i suoi pilastri ideali e politici: europeismo, riduzione fiscale, rivoluzione infrastrutturale, antistatalismo burocratico e assistenzialista, riprogettazione del welfare, garantismo, globalismo.
L’antitesi tra sinistra liberale e populismo in questa fase si è tradotta anche in una rottura profonda con la sinistra “socialdemocratica” (sarebbe meglio dire ex comunista e ed ex democristiana) che, tornata alla guida del Pd, ha fatto invece dell’alleanza/fusione con i 5S la sua prospettiva strategica su cui rimodellare l’identità della sinistra. Un “vaste programme” che però ha reso il Pd più permeabile agli antichi richiami statalisti, all’assistenzialismo spacciato per lotta alle diseguaglianze, a un ritorno di un polveroso anticapitalismo, in nome della tutela degli interessi dei lavoratori, all’adesione a un ambientalismo di maniera, allargando la faglia con la sinistra liberale che non sta solo in Italia Viva ma in un vasto spettro di forze centrali dello scacchiere politico e che non ha nessuna intenzione di fondersi con i rimasugli del populismo antipolitico di Di Maio e di Di Battista per andare “verso il popolo”.
Gli avversari di IV dunque non sono solo i 5S ma anche il Pd che si sente sfidato dalla strategia “corsara” di Renzi, ma che ottiene risultati come è accaduto anche nell’occasione della sfiducia a Bonafede: ha votato a favore del Guardasigilli, ma ha chiesto contropartite programmatiche significative, che in parte indeboliscono la stessa egemonia grillina sulla giustizia, con l’istituzione della commissione per la revisione della prescrizione, in parte vanno nella direzione di politiche economiche e sociali alternative all’assistenzialismo dei sussidi a pioggia caro a Di Maio, ma che il Pd non scoraggia.
IV al governo, dunque, sta combattendo una battaglia per la propria identità – altro che posti e sottogoverno – e sta tenendo aperta una prospettiva politica che riguarda soprattutto il dopo Conte 2 e che ha l’obbiettivo di costruire un campo riformista che tenga insieme Azione, +Europa, movimenti ambientalisti, forze civili democratiche e aree riformiste moderate che oggi sono collocate a destra, in attesa che provengano segnali incoraggianti anche dal Pd, che oggi è il grande assente della politica italiana. Invece che fare gli stalker di Renzi come fa Calenda per ingaggiare uno scontro sulla leadership prematuro in assenza del campo di gioco, sarebbe auspicabile che – indipendentemente dalle posizioni occupate ora in parlamento – si cooperasse al raggiungimento di questo obbiettivo politico: per il bene del paese, della democrazia italiana e anche della sinistra.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019