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In Ucraina, la prima guerra di indipendenza (energetica) dell’Europa

Diego Gavagnin martedì 6 Dicembre 2022
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di Diego Gavagnin*

La centralità dell’energia nella guerra di Putin. Mai più gas russo per avere pace giusta subito

Perché l’aggressione russa è scattata a febbraio 2021, iniziando quella che dovremmo considerare la prima guerra di indipendenza europea (sperando sia vinta e che non ce ne siano altre)? Una guerra di indipendenza non è solo liberare territori occupati, ma anche liberarsi dai ricatti economici. Se poi c’è di mezzo l’energia la faccenda diventa vitale.

Deciso l’attacco all’Ucraina, Putin valuta come contenere o evitare le reazioni dell’Occidente, e soprattutto dell’Europa. È giunto il momento di utilizzare il certosino lavoro di oltre 20 anni per avere in mano il sistema energetico europeo, che nel 2021 è arrivato a dipendere dalla Russia per il 45% del metano, non sostituibile perché fornito via gasdotto. Si presenta una ghiotta occasione, intuibile da lui già nella primavera del 2021.

Volendo massimizzare la dipendenza europea, qual è la data migliore per l’attacco militare? Il mercato europeo del gas dipende molto dagli stoccaggi, che nel periodo invernale garantiscono un terzo dei consumi complessivi. Il periodo più critico è tra febbraio e metà marzo, perché man mano che gli stoccaggi si svuotano si riduce la pressione e il gas residuo sale sempre più lentamente dai giacimenti usati come serbatoi. Se gli stoccaggi a inizio inverno non sono già pieni la crisi è sicura, in passato lo abbiamo rischiato varie volte.

Guarda caso la data dell’attacco è il 24 febbraio (quella per la conquista della Crimea iniziò il 26 febbraio 2014), quando Putin prevedeva che l’Europa sarebbe rimasta senza gas, con gli stoccaggi esauriti o inutilizzabili. Come avrebbero potuto decidere in quel momento i Paesi europei sanzioni economiche, aiuti militari all’Ucraina o altro, mentre avevamo industrie chiuse e famiglie al freddo? Avendo solo la stessa Russia cui chiedere il gas?

Ricostruiamo la strategia di Putin. Mercato gas primavera-estate 2021: nel post Covid incertezza nei mercati aperti sui tempi della ripresa economica mondiale, rallentamento di investimenti e decisioni di acquisto. La Cina vede i prezzi bassi e ordina alle sue società di comprare più gas possibile, cui si aggiunge la siccità in Brasile, la scarsità di vento per l’eolico nel Mare del nord, chiusura imprevista di centrali nucleari francesi. Aumenta la domanda di gas sostitutivo per produrre elettricità.

Di conseguenza, mercato del gas corto in Europa, anche per la ripresa economica post covid più forte del previsto. Prezzi in crescita ma niente di troppo allarmante, nella normalità degli andamenti del mercato. In quel momento la Russia garantiva con contratti pluriennali gas all’Europa per 150 miliardi di metri cubi all’anno, sui circa 330 che ci servono.

Come negli anni precedenti, a settembre gli operatori iniziano a chiedere gas aggiuntivo che i russi si rifiutano di vendere, nonostante i prezzi siano più alti del solito. Se la Russia avesse dato i 40 miliardi a pronti che il mercato si aspettava la crisi di prezzo sarebbe rientrata. Inizia lì la guerra economica di Putin all’Europa, sei mesi prima dell’attacco militare.

A ottobre la situazione non può che peggiorare e i prezzi si impennano perché ci si rende conto che si rischia di arrivare all’inverno con stoccaggi non sufficienti. Si diffonde pubblicamente il timore di una mancanza di gas nei mesi più freddi. Intanto la Russia oltre a negare il gas extra non completa gli stoccaggi di Olanda, Germania e Austria che ha in gestione, citando problemi tecnici tutti da dimostrare.

Lo scorso autunno-inverno ci ha salvati l’andamento del clima, perché la stagione mite negli USA ha liberato gas che è arrivato da noi via nave. Così come il caldo anomalo dello scorso ottobre e primi giorni di novembre probabilmente ci sta salvando anche quest’anno, perché più tardi si intaccano gli stoccaggi e meglio è. Importante anche non svuotarli del tutto, perché il prossimo anno non avremo, o li avremo in minima parte, i 150 miliardi dei contratti pluriennali.

Mai più gas russo, per avere la pace

Attenzione: Putin sa benissimo che il futuro della Russia è legato alla vendita di gas e petrolio da cui dipendono metà del bilancio statale e i finanziamenti all’esercito. Per questo ha una attenzione maniacale sul rispetto formale dei contratti, come se finita la guerra tutto potesse ricominciare come prima.

Però il tema dei vincoli contrattuali resta e potrà essere anche utilizzato sia da Putin sia da altri al suo posto. I contratti pluriennali, pur avendo in buona parte la clausola “take or pay” hanno una certa flessibilità sui quantitativi annuali da consegnare e soprattutto clausole di “forza maggiore”, che permettono di non consegnare/non ritirare senza dover pagare penali.

Se non ci fossero stati gli attentati su tre dei quattro gasdotti del Baltico la Russia avrebbe dovuto ricominciare a rifornire la Germania. L’unico tubo che è stato risparmiato è del Nord Stream 2, quello bloccato da noi, non da Putin, prima che scattassero le clausole take or pay (i russi erano informati che c’era un processo autorizzativo in corso che poteva concludersi negativamente).

Anche in questo momento Putin è nei contratti. Chi oggi sta ritirando il rivolo di gas russo che ancora ci arriva “deve” prenderlo. Le riduzioni dei rifornimenti pluriennali sono giustificate dalla Russia per cambiamenti delle regole commerciali conseguenti alle sanzioni economiche e alle interruzioni su un gasdotto in Ucraina che è stato bombardato e le interruzioni dei tre gasdotti nel Baltico.

Perciò lo strumento più potente per portare Putin ad una pace rapida e giusta è l’impegno a non comprare mai più il suo gas e il suo petrolio. Come disse esplicitamente Draghi mesi fa, solo tra tutti i leader europei. Non lo si dice perché ancora per almeno un anno potremmo aver bisogno di un po’ del suo gas per evitare problemi nell’inverno 2022/2023. E le nostre imprese di import non avrebbero motivi di forza maggiore da poter vantare per interrompere i ritiri. Un po’ di gas dei contratti pluriennali arriva ancora, ma fino a quando?

Non si dice, ma forse qualcuno, come in Germania, spera ancora nelle forniture russe a guerra finita. Ma se è rischiosa una politica di annunci sul post guerra, sempre per paura delle reazioni di Putin, diventa fondamentale attrezzarsi per poter essere indipendenti il prima possibile, costruendo nuove infrastrutture di approvvigionamento del gas liquido.

Come rendersi indipendenti dalla Russia

Finita l’epoca dei gasdotti (fatti salvi quelli già attivi), l’unica alternativa è lo sviluppo di rigassificatori da noi e impianti di liquefazione di GNL presso i paesi produttori ed esportatori, come sta diventando l’Egitto. Meglio se con partecipazione finanziaria dei paesi consumatori, per dimostrare che si crede nella redditività degli impianti e si è intenzionati a garantirla.

E qui si pone un altro problema. Fino a quando avremo ancora bisogno di gas? Con una posizione piuttosto ideologica la UE dice che dovremo smettere entro il 2050. I dati dell’ultimo rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, organo dell’OCSE, ci dicono invece che a livello mondiale il mercato del gas, quasi esclusivamente di GNL, crescerà fino al 2030 e poi si stabilizzerà fino al 2050 (per dopo non ci sono previsioni).

Certamente l’Europa nel 2030 consumerà ancora gas come e più di oggi, intorno ai 340 miliardi di metri cubi, per poi forse scendere, mentre il consumo di GNL continuerà a crescere a livello mondiale. Per gestire l’emergenza dei prossimi anni dobbiamo costruire nuove infrastrutture, in particolare in Italia il rigassificatore di Gioia Tauro in Calabria, che da solo potrebbe garantire un quinto dei nostri consumi.

Necessario quindi garantire l’ammortamento dei nuovi impianti, che vanno dichiarati strategici e regolati, cioè garantiti dalle tariffe anche quando non dovessero essere più redditivi. Oppure farli realizzare da Snam (e altre società simili europee), società regolata perché svolge attività in “monopolio tecnico”. Un piccolo costo per i consumatori a garanzia della sicurezza energetica futura.

Teniamo presente che presto dovremo molto probabilmente fornire noi il gas all’Austria e all’Ucraina, se non anche in parte alla Germania, facendo dell’Italia un centro di importazione ed esportazione di gas da sud verso nord e nord-est. Per questo Putin non voleva la separazione proprietaria di Snam dall’ENI (possessore del gas), assecondato dall’Eni stessa. La Snam indipendente ha obiettivi di business e si attiva nella conversione dei flussi dei gasdotti per permettere le esportazioni.

Il costo della sicurezza energetica

Fu Monti nel 2012, con un colpo di mano, a imporre la separazione di Snam dall’ENI come operatore indipendente dei grandi gasdotti. Posizione sempre tenuta ad esempio da Morando e Quartiani, e adesso fatta propria dal Centrodestra che vedremo se riuscirà a passare dalle parole ai fatti su Gioia Tauro e l’incremento delle esportazioni.

Negli scorsi 16 anni si è preferito fare dell’Italia un lavandino, dove tutto il gas che arriva si consuma, con i prezzi finali più alti di tutti gli altri Paesi. Prezzi alti, più guadagni e maggiori dividendi per il Tesoro e i Comuni azionisti delle ex aziende energetiche municipalizzate.

Sulla sicurezza energetica pagata dai consumatori nelle bollette energetiche niente di strano o di nuovo. Il rigassificatore OLT al largo di Livorno, che quando è entrato in funzione non era economico, fu dichiarato strategico e garantito dalle tariffe pagate dagli italiani. Come abbiamo visto quella decisione – che ai consumatori sarà costata qualche euro all’anno – fu fondamentale. Lo ricordo perché l’Autorità dell’energia, che decide cosa va nelle bollette, all’epoca non era convinta di doverlo fare, pensando alla tutela dei consumatori.

Questo ci dice che sarebbe necessario un atto di indirizzo parlamentare che inserisca la sicurezza energetica negli obiettivi dell’Autorità, assieme agli obiettivi di concorrenza, prezzi equi e ambiente. Anche se con una interpretazione estensiva la sicurezza energetica è già oggi un obiettivo a tutela del consumatore, come abbiamo visto in questi mesi.

Il giorno in cui si riducesse significativamente il consumo di gas i rigassificatori galleggianti che ci siamo procurati per far fronte all’emergenza, si potranno rivendere. A proposito, mentre noi li abbiamo comprati, la Germania li ha affittati. Da qui il sospetto che voglia ricominciare a comprare gas russo a guerra finita.

Democrazia economica e rapporti con le autocrazie

Il comportamento di Putin ci ha fatto capire adesso perché la Russia ha sempre, in tutti i rapporti commerciali energetici, privilegiato la durata dei contratti rispetto al prezzo, e perché non voleva l’apertura dei mercati, che porta alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento.

Il contratto trentennale firmato nel 2006 dal Centrodestra e confermato dal Centrosinistra lo stesso anno (29 miliardi fino al 2036, a fronte di 74 miliardi di import italiano nel 2021) è ciò che ci lega ancora a Putin, mentre chi pensava alla sicurezza nazionale già allora suggeriva di investire nel GNL, che può arrivare da tutto il mondo. Abbiamo forse pagato il gas russo un po’ meno del giusto prezzo ma lo stiamo ripagando con gli interessi adesso.

Alzando lo sguardo, quanto fatto da Putin ci apre gli occhi su un problema che per realismo politico e supposto interesse economico abbiamo troppo trascurato, e cioè i rapporti tra vere democrazie, quindi democrazie economiche, e Paesi fornitori non pienamente democratici, che pur operando nei mercati aperti possono avere obiettivi diversi dal fare affari.

Per questo l’attuale, pur con tutte le sofferenze, è anche una crisi salutare, che ci obbliga a riflettere non solo sulle provenienze delle fonti energetiche, ma anche delle produzioni di materie prime essenziali, componenti elettroniche, forniture alimentari, eccetera, che potrebbero diventare strumento di ricatto.

Il presidente USA Biden ad inizio della crisi ha parlato di “alleanza delle democrazie”, che per l’energia potrebbe voler dire una globalizzazione diversa dall’attuale, in cui i paesi democratici fanno affari solo con altri paesi democratici. Nel settore del gas sarà presto possibile, perché i principali produttori di GNL sono adesso USA, Australia, Norvegia, presto Canada e altri minori. Se queste produzioni si orientano verso Paesi consumatori democratici, le produzioni dei paesi non democratici si orienteranno verso i loro simili, soprattutto la Cina.

Non lo sto auspicando, e probabilmente non sarà necessario arrivare a tanto, basta infatti che la capacità di produzione di GNL e di rigassificazione lo permetta. Se l’Algeria, che sta sostituendo la Russia come operatore dominante nelle nostre forniture, impazzisse come è impazzito Putin, o il Qatar o anche l’Egitto, che diventerà presto uno dei nostri principali fornitori, sarebbe sufficiente poterli sostituire con produzioni “democratiche”. Nel febbraio scorso questo non sembrava possibile con la Russia, ma invece lo sarà presto, grazie alle nuove infrastrutture che sostituiscono i gasdotti, e un miglior uso ed espansione degli stoccaggi.

Che futuro per il gas e il petrolio

Probabilmente il mercato gas evolverà verso contratti di diversa durata, rispetto a quelli di lunghissimo termine, ma non è detto che questo comporti aumenti significativi di prezzo rispetto a quelli storici. Quando dieci anni fa entrò sul mercato il GNL USA i prezzi scesero, e gli stessi russi accettarono di abbassare i propri, per adeguarsi agli andamenti del “famigerato” TTF, la borsa del gas olandese, e tenere in vita i contratti di lungo periodo. È sempre il mercato aperto che garantisce i prezzi migliori.

Diverso il caso del petrolio, perché la produzione è maggiormente concentrata presso Paesi non democratici del Medio Oriente con l’Arabia Saudita in testa. Tanto è vero che nel petrolio c’è un cartello, l’OPEC gestito da loro, che governa quantità e prezzi aprendo e chiudendo i rubinetti.

La Russia fa parte di questo cartello del petrolio che infatti ha respinto tutte le richieste di aumentare la produzione per tenere i prezzi bassi, nonostante ciò servisse anche a Biden, in vista delle elezioni di metà mandato. La crisi Ucraina ha alzato i prezzi della benzina anche negli Stati Uniti, oltre a contribuire all’inflazione, su cui gli americani sono molto sensibili. La Presidenza ha dovuto rilasciare le scorte strategiche di petrolio, attenuando il problema.

Quando si dice che l’America ha interessi economici per far durare la guerra in Ucraina si dice una fesseria. Non sono stati gli USA ad aumentare il prezzo del GNL che ci sta mandando, è che quando arriva sulle coste europee prende il nostro prezzo, alto per esclusiva responsabilità della Russia. Ma gli americani hanno un problema, devono decidere tra vendita di armi agli arabi e giusto prezzo del petrolio.

Sul futuro dell’oro nero incombe invece la rivoluzione della mobilità elettrica, che per quanto difficile e costosa potrà risolvere il problema delle dipendenze dalle non democrazie arabe. La maggior parte del petrolio è ancora usata nei trasporti, dove peraltro è già iniziata la sua sostituzione anche con il metano liquido, che andrebbe favorita.

Che fare dei contratti gas in essere?

Torniamo ai contratti e a cosa potrà succedere a guerra finita. Come fare per liberare le società importatrici europee dagli obblighi di ritiro del gas russo, se fossero vantate al tavolo di pace, quando non lo vorremo più, come appare  sacrosanto dopo quello che ha fatto Putin, assecondato anche dalla maggioranza del suo popolo?

Come fa adesso Putin per non darci tutto il gas che volendo potrebbe darci, le imprese hanno bisogno di una “forza maggiore”. Non volendo e potendo noi far esplodere i nostri gasdotti, dovranno essere l’Unione Europea o anche i singoli Stati a liberare le imprese dagli obblighi di ritiro.

La strada più diretta è dichiarare la Russia “stato canaglia” (come il Parlamento Europeo ha iniziato a fare giorni fa) per attività di terrorismo internazionale e perseguire i suoi governanti per crimini di guerra. In conseguenza di questa decisione politica si vieterà alle compagnie di continuare a comprare gas russo. Poi, se Putin ci sarà ancora, faccia pure ricorso alla camera di commercio mondiale per avere il rimborso del gas che non ritireremo. E vedremo come andrà a finire.

In ogni caso, se e quando si avvieranno trattative di pace, che dovranno a mio avviso vedere al tavolo anche l’Europa, proprio perché come dicevo all’inizio si tratta di una guerra di indipendenza europea, la denuncia dei contratti di importazione dovrà essere uno dei punti centrali e penso che sarà tra i più difficili da risolvere. Tutti in Russia sanno che la loro sanità, le pensioni etc. dipendono dalle esportazioni di gas e petrolio.

Non ci sono solo da rimborsare le distruzioni della guerra sul campo, ma anche quelli della guerra economica scatenata a settembre 2021 senza dichiararla. Quanto PIL ha perso l’Europa con questa folle aggressione? Adesso si dice che se vincerà l’Ucraina non potremo “umiliare” la Russia. Ebbene, che vendesse pure il suo gas alla Cina ed altri, certo l’Europa non potrà ricominciare a consumare gas russo rosso sangue come se nulla fosse accaduto.

*Relazione presentata agli Incontri Riformisti del 12-13 novembre di Eupilio, nella sessione “Quale sbocco all’emergenza energetica nei paesi occidentali?”

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