A quasi quarant’anni dal riconoscimento del part-time nel nostro ordinamento, un dialogo sul ritardo della disciplina italiana della materia e sulle condizioni necessarie affinché in questo campo si realizzino le condizioni necessarie per un pieno ed effettivamente libero dispiegamento dell’autonomia negoziale individuale
Intervista a Pietro Ichino a cura di Francesco Alifano, ricercatore della Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro, Università degli Studi di Siena, pubblicata sul Bollettino ADAPT, 20 novembre 2023 – In argomento v. anche, su questo sito, Il mercato del tempo di lavoro, capitolo IV del libro Il lavoro e il mercato (Mondadori, 1996) – L’intervista, anticipata nel numero di novembre 2023 sul Bollettino Adapt, è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prima prende spunto dal mio articolo Verso una nuova concezione e struttura della disciplina del tempo di lavoro, RIDL, 1985, I, pp. 241-269 – L’altra intervista di questa serie è dedicata a La partecipazione dei lavoratori nell’azienda
Il tema dei tempi di lavoro è tornato di grande attualità nel dibattito politico e sindacale degli ultimi anni. Quando hai scritto il saggio del 1985, avevi da poco pubblicato proprio sul tema una fondamentale monografia in due volumi (P. Ichino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1984-85) ed eri stato protagonista, nel sindacato e poi in Parlamento, come membro della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati nel corso della VIII legislatura, del dibattito in materia di lavoro a tempo parziale, che ha poi portato all’adozione del decreto-legge n. 726/1984, convertito in legge n. 863/1984. Da testimone privilegiato, non solo come studioso del tema, ma anche come sindacalista e parlamentare, quale credi che sia stato il motivo per cui, nel corso degli anni Ottanta, si è reso necessario un ripensamento della concezione del tempo di lavoro? Cosa c’è di ancora attuale nella riflessione di quei giorni?
Dal 1979 al 1983, come membro del gruppo dei deputati comunisti e della Commissione Lavoro della Camera, ero stato testimone diretto della strenua opposizione da parte del Pci a ogni proposta di riconoscimento legislativo del lavoro a tempo parziale. Prima di entrare in Parlamento, del resto, avevo lavorato per dieci anni nella Cgil, che essa pure – a differenza della Cisl – si opponeva con gran vigore all’introduzione di questo istituto nel nostro ordinamento. Motivo dell’opposizione era ufficialmente il timore che il lavoro a tempo parziale diventasse un “ghetto” in cui avrebbe rischiato di essere rinchiuso il lavoro femminile; ma c’era un motivo più profondo, che compresi appieno soltanto attraverso l’esperienza parlamentare: il part-time implica uno spazio di autonomia negoziale individuale nella determinazione delle condizioni di lavoro. E questo per la maggior parte della sinistra di quell’epoca era un tabù.
Quando e come hai capito che questo, più che la questione di genere, fosse il motivo dell’opposizione al riconoscimento del tempo parziale?
Lo disse esplicitamente Adriana Seroni – che nel corso della VIII legislatura era la responsabile del Pci per la questione femminile – proprio nel corso di una riunione del Gruppo dei deputati comunisti in cui si discuteva di un mio abbozzo di proposta di legge: “riconoscere il part-time significa riconoscere un accordo individuale tra il datore e il prestatore di lavoro; ma noi sappiamo che quest’ultimo, in un negoziato con il datore, non è mai veramente libero; e comunque non possiamo consentire che si apra una breccia nel principio per cui le condizioni di lavoro devono essere disciplinate soltanto dalla legge o dalla contrattazione collettiva”. In quell’occasione provai a proporre che il progetto di legge prevedesse una riserva a favore del contratto collettivo nazionale, come unica sede in cui la materia potesse essere disciplinata; ma anche questa proposta venne respinta, con la motivazione di genere: perché la previsione della possibilità del part-time avrebbe consentito agli imprenditori di utilizzarlo per relegarvi le donne. Così la mia proposta di legge venne bocciata dal Gruppo; il che mi impediva di presentarla, perché la regola, nel Pci, era che l’iniziativa legislativa da parte dei singoli parlamentari potesse essere esercitata soltanto con l’approvazione del Gruppo. Poi, nella legislatura successiva, ci pensò il governo Craxi; e il Pci votò contro.
Fino ad allora assumere un dipendente a tempo parziale era vietato?
No: non era previsto, ma neppure vietato dalla disciplina vigente del contratto di lavoro. Però il part-time orizzontale era reso particolarmente costoso dall’ordinamento previdenziale, che determinava il minimo contributivo in relazione alla giornata lavorativa, ignorando l’ipotesi dell’impiego a metà tempo, o comunque per un numero di ore diverso dalle otto standard: così, soprattutto nelle fasce professionali più basse, sul costo complessivo del contratto per l’impresa l’onere contributivo aveva un’incidenza sproporzionata. Questa sproporzione non si verificava nel caso del part-time verticale, che però all’epoca era pressoché del tutto sconosciuto.
Ma il timore della “ghettizzazione” delle donne, secondo te, era fondato o no?
Allora ero reduce da viaggi di studio in diversi Paesi europei e negli U.S.A., dove osservavo un tasso di partecipazione femminile alla forza-lavoro molto superiore al nostro, favorito proprio dal lavoro a tempo parziale. Pensavo, dunque, che l’alternativa non fosse tanto tra il lavoro femminile a tempo pieno e quello a part-time, quanto tra il lavoro femminile a part-time e il non lavoro femminile. Tutto sommato la penso ancora così: il problema non si risolve vietando o limitando il part-time. Certo, la possibilità del lavoro part-time non può far dimenticare la necessità di eliminare gli ostacoli sistemici alla piena libertà delle donne di scegliere tra il tempo parziale e il tempo pieno; ma questi ostacoli non si rimuovono certo vietando od ostacolando il tempo parziale.
Già nel saggio del 1985, avevi avvertito che il rischio di costringere in un ipotetico “ghetto” del lavoro ad orario ridotto alcune “fasce deboli” di lavoratori si sarebbe evitato, più che limitando la possibilità di stipulare contratti di lavoro a tempo parziale, attraverso interventi sul contesto socio-culturale e sull’organizzazione dei servizi urbani. Oggi, però, secondo i dati Istat, sulla totalità dei contratti di lavoro a tempo parziale, il c.d. part-time involontario riguarda, in Italia, circa il 56% dei casi. Se sul fronte legislativo sono state implementate alcune misure (si veda, ad esempio, l’introduzione del diritto del prestatore a richiedere la transizione a forme di lavoro più stabili, sancito dal decreto legislativo n. 104/2022 in attuazione della direttiva 2019/1152), quali credi che siano gli ulteriori interventi da attuare per contrastare questo fenomeno che colpisce principalmente le categorie più deboli di lavoratori?
Questo del part-time involontario, se intendiamo il termine nel significato che gli è attribuito nelle rilevazioni statistiche, è un problema del tutto diverso – direi addirittura inverso – rispetto a quello del rischio della ghettizzazione del lavoro femminile. Ed è un problema più ampio: non riguarda soltanto chi si trova impegnato in un lavoro part-time preferendo il lavoro a tempo pieno, ma anche chi non riesce a tirarsi fuori da una condizione di lavoro precario, o sotto-pagato. In un tessuto produttivo come il nostro, nel quale in tutte le fasce di professionalità le imprese stentano a trovare la manodopera che cercano in un caso su due, la protezione più efficace che possa essere offerta alle persone che si trovano in una situazione insoddisfacente consiste nell’offrire loro servizi efficaci di informazione sulle transizioni per loro concretamente possibili nel mercato del lavoro, servizi di formazione specificamente mirati agli sbocchi effettivamente esistenti e servizi di assistenza alla mobilità geografica della persona e della sua famiglia, che anch’essi possono avere un valore decisivo per l’aumento della possibilità effettiva di scelta del proprio lavoro. Per chi ha un lavoro a tempo parziale e non riesce a passare al tempo pieno – o al tempo indeterminato – nella propria azienda non c’è protezione più efficace di quella data dalla possibilità di andarsene a lavorare in un’altra azienda che offre questa opzione. Ma in Italia a mancare sono proprio questi servizi nel mercato.
Quello della necessità di combinare gli strumenti di modulazione dei tempi di lavoro con lo sviluppo di un mercato del lavoro in cui non fosse tutelata soltanto la posizione degli occupati a danno dei disoccupati è un tema ricorrente nella tua produzione scientifica. Penso, ad esempio, al contributo Lavorare meno, lavorare meglio: riduzione dell’orario e concorrenza tra occupati e disoccupati, in LD, 1994, 3, pp. 343-350, in cui hai legato i due aspetti, osservando, da un lato, che, per il funzionamento del mercato del lavoro, i lavoratori dovrebbero essere lasciati liberi di determinare la propria estensione temporale ottimale e, dall’altro, che, per raggiungere l’obbiettivo della redistribuzione delle occasioni di lavoro, è necessario aiutare i disoccupati ad essere più competitivi nel mercato del lavoro. Credi che le tue conclusioni di allora siano ancora attuali?
Sì. Una maggiore fluidità del mercato del tempo di lavoro favorirebbe l’allocazione migliore del tempo stesso, in relazione alle esigenze di ciascuna delle parti. Ma in questo campo più che in molti altri la libertà effettiva delle persone che vivono del proprio lavoro non basta sancirla per legge: occorre costruirne i presupposti materiali, “rimuovere gli ostacoli” al suo esercizio. Per questo occorrerebbe che il mercato del lavoro fosse maggiormente e più capillarmente innervato di servizi efficaci di informazione su domanda e offerta, nonché di formazione mirata ai possibili sbocchi esistenti, della quale fosse controllata sistematicamente la qualità. Su questo terreno c’è ancora molto da fare.
Nel secondo volume della monografia sul tempo di lavoro hai trattato, per la prima volta nella letteratura giuslavoristica italiana, di figure atipiche come il flexi-time e il job-sharing, che ancora non avevano alcuna diffusione a sud delle Alpi. Da dove nasceva l’interesse per queste figure?
In realtà il flexi-time era già abbastanza diffuso anche da noi: non se ne parlava perché era un caso tipico di autodeterminazione individuale del tempo di lavoro, al di fuori del modello standard, che gli schemi dominanti della nostra cultura giuslavoristica non riuscivano a mettere a fuoco. Il job-sharing in Italia era stato sperimentato – e riconosciuto dal contratto collettivo – soltanto nel settore del portierato, e comunque non riconosciuto come sotto-tipo contrattuale meritevole di studio. Entrambe queste figure, invece, erano notevolmente diffuse in Gran Bretagna e in America: lo scoprii trovando dei libri dedicati a esse nelle librerie di Londra e di San Francisco. E mi parve utile dedicare a questi nuovi modi di organizzazione del tempo di lavoro qualche spazio nel mio libro.
Senza molta fortuna, però, almeno nel caso del job sharing.
Senza fortuna sul piano della diffusione nel tessuto produttivo, probabilmente a causa di un difetto di chiarezza circa il regime previdenziale applicabile nel caso del “lavoro gemellato”, che non è mai stato superato. Però nel 1997 Tiziano Treu, in veste di ministro del Lavoro, emanò una circolare che confermava la mia tesi sulla piena compatibilità del job sharing con l’ordinamento vigente; e nel 2003 il contenuto di quella circolare venne ripreso pari pari nella legge Biagi. Fu poi il ministro del Lavoro Cesare Damiano, nel 2007, ad adoperarsi per la soppressione di quella norma, senza peraltro mai spiegarne la ragione: il job sharing è un modo straordinario per coniugare le esigenze di flessibilità/elasticità del tempo di lavoro nell’interesse di una coppia di persone con l’esigenza di sicurezza di copertura lavorativa di una fascia oraria superiore alle otto ore giornaliere nell’interesse dell’azienda. Ma nel 2007 la priorità, per la sinistra italiana, era di poter dire di aver smantellato la legge Biagi; e, non potendosela prendere con altre parti di quella legge, decisero di prendersela col job sharing.
Tu hai sostenuto che la piena libertà di determinazione da parte del lavoratore del proprio tempo di lavoro è l’obiettivo cui deve tendere il diritto al lavoro. Questa affermazione, nel saggio del 1985, ti ha permesso di superare l’idea – allora maggioritaria – secondo cui la clausola di riduzione dell’orario fosse aprioristicamente da intendere come imposizione subita dal lavoratore, contraria alla sua naturale e universale aspirazione al lavoro a tempo pieno, rivalutando, quindi, la rilevanza del contratto individuale di lavoro. Quale deve essere, dunque, in una materia delicata come quella dei tempi di lavoro, il ruolo dell’autonomia privata individuale? Potrebbero trovare spazio, in questo particolare ambito, modelli di autonomia negoziale assistita o derogabilità assistita?
Le forme di negoziazione assistita possono costituire una soluzione transitoria utile per la protezione della persona che lavora contro i rischi di una imposizione da parte dell’imprenditore, in attesa che il mercato del lavoro sia compiutamente innervato dei servizi efficaci di informazione, formazione mirata e assistenza alla mobilità, di cui parlavo prima; cioè dei servizi atti ad abilitare effettivamente la persona alla libera scelta in un tessuto produttivo maturo e fortemente plurale anche dal lato della domanda di manodopera. L’efficacia protettiva dell’istituto della negoziazione assistita non deve però essere sopravvalutata: se la persona interessata non è effettivamente libera di scegliere perché l’opzione exit non è per lei effettivamente accessibile, la negoziazione in sede protetta non le evita del tutto il rischio di dover subire l’imposizione di condizioni contrattuali non gradite. È questo il motivo per cui sostengo che la protezione migliore della persona che vive del proprio lavoro è data dalla possibilità effettiva di “usare” un mercato ricco di domanda insoddisfatta: questo è anche ciò che suggerisce il capability approach alla tematica dei diritti della persona che proprio nel corso degli anni ’80 ha incominciato a essere studiato e proposto da Amartya Sen e da Martha Nussbaum, nella sua applicazione al diritto del lavoro che qui da noi ha avuto come primi e maggiori sostenitori Bruno Caruso e Riccardo Del Punta.
Accanto alla rivalutazione dell’autonomia individuale, la personalizzazione dei tempi di lavoro impone una riflessione anche sull’autonomia collettiva. Come avevi evidenziato già nel saggio qui ripubblicato, il sindacato ha storicamente incontrato difficoltà nel contrattare modelli di lavoro che si discostano da quello standard a tempo pieno, poiché, quando le modalità temporali – e quindi retributive – dei singoli rapporti incominciano a diversificarsi, c’è il rischio che lo stesso sindacato possa, a causa della disgregazione degli interessi che è chiamato a rappresentare, perdere forza contrattuale. Come sono andate, effettivamente, le cose?
Negli anni ’80, dopo l’entrata in vigore della legge n. 863 del 1984, le confederazioni sindacali maggiori hanno inaugurato la nuova stagione introducendo nei contratti collettivi nazionali di settore delle clausole limitative del part-time di due tipi: clausole di contingentamento, ovvero limiti percentuali dei dipendenti a part-time rispetto all’organico aziendale complessivo; e clausole che definivano rigidamente l’estensione ridotta del tempo di lavoro nell’arco della settimana (per esempio: 25 ore, oppure 20 ore). In queste clausole collettive si esprimeva la perdurante diffidenza dalla parte maggioritaria del movimento sindacale nei confronti della possibilità della negoziazione individuale delle condizioni di lavoro. Fu proprio l’introduzione di quelle clausole nei contratti collettivi nazionali che mi indusse a scrivere l’articolo che qui viene oggi ripubblicato, per avvertire che ad esse poteva essere riconosciuto soltanto un effetto dispositivo, ma non l’inderogabilità: è infatti impossibile stabilire in astratto che cosa sia melius e che cosa pejus per una persona in materia di collocazione o di estensione temporale della prestazione di lavoro, quando l’estensione negoziata sia al di sotto del limite massimo stabilito dalla legge.
Quale dovrebbe essere, invece, il ruolo del sindacato nella definizione dei tempi di lavoro? La strategia che avevi indicato nel saggio ha avuto, secondo te, riscontri nell’attività sindacale degli anni successivi?
Nel giro di una quindicina d’anni, come era auspicabile e anche facilmente prevedibile, quelle clausole collettive vennero progressivamente superate. Incominciarono invece a diffondersi: clausole volte a limitare la variabilità della collocazione o della estensione temporale del part-time, in relazione alle quali si posero questioni giuridiche nuove; inoltre clausole volte a proteggere l’interesse della persona interessata alla possibilità di passare dal tempo pieno al tempo parziale, o, soprattutto, viceversa. E qui siamo già a una forma di sostegno collettivo alla negoziazione individuale delle condizioni di lavoro. Quello che ancora non si vede è un sindacalismo confederale che fa proprio appieno il capability approach, la filosofia dell’empowerment della persona, del suo rafforzamento nel mercato del lavoro come garanzia di maggior forza nella negoziazione individuale con l’imprenditore: è il tema discusso nel quarto capitolo del libro L’intelligenza del lavoro, il cui sottotitolo è Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore.
Le istanze di personalizzazione e riduzione del tempo di lavoro che iniziarono a manifestarsi al tempo della legge del 1984 sono ancora oggi al centro del dibattito: basti pensare al lavoro agile, al lavoro organizzato mediante piattaforma digitale, oppure alle crescenti istanze di riduzione della settimana lavorativa. Queste rivendicazioni, però, a differenza di quanto accaduto in altri ordinamenti, in cui le esigenze del lavoratore possono anche arrivare a incidere sulle prerogative aziendali, non sono state recepite nell’ordinamento del lavoro italiano e nella prassi, se non attraverso la previsione di strumenti deboli, quali per esempio i diritti di priorità di cui hai fatto cenno. Quali sono le ragioni di questa difficoltà?
Non è facile rispondere a questa domanda. Sono portato, però, a ritenere che questo “mercato del tempo di lavoro” – oggi luogo di negoziazione non soltanto dell’estensione e della collocazione temporale della prestazione, ma anche della sua emancipazione totale o parziale dal vincolo dell’orario – sia sempre meno suscettibile di governo mediante modelli standard contrattati in sede collettiva. La partita della tutela della persona in questo mercato si giocherà sempre di più sul terreno del rafforzamento della capacità della persona stessa di muoversi in questo mercato e quindi di scegliere. Gli strumenti di questa tutela saranno sempre meno le disposizioni inderogabili e sempre più i servizi di orientamento professionale, di informazione, di formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti. Come scrivo nel libro che ho citato poc’anzi, mi piacerebbe un sindacato confederale fortemente impegnato su questo terreno; osservo, invece, una tendenza perdurante del sindacalismo confederale a farsi carico della protezione delle persone nel luogo di lavoro, ma non nel mercato del lavoro.
Ad ogni modo, la diffidenza, sia sindacale sia datoriale, verso le istanze di personalizzazione dei tempi di lavoro ha portato al paradosso per cui, di frequente, i contratti collettivi arrivano a condizionare, mediante schemi orari rigidamente definiti, finanche il ricorso a strumenti come il lavoro agile, che, invece, secondo l’articolo 18 della legge n. 81/2017, dovrebbe (o almeno potrebbe) costituire una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzata dall’assenza di vincoli orari e dall’organizzazione del lavoro per fasi, cicli e obiettivi. Su questo punto, anche alla luce del Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile del 7 dicembre 2021, che, pur prevedendo la possibilità di articolare la prestazione lavorativa in fasce orarie, ribadisce l’«assenza di un preciso orario di lavoro» nell’esecuzione della prestazione in modalità agile, quale credi che dovrebbe essere il ruolo dell’autonomia collettiva?
Alcune aziende si sono addirittura ristrutturate in funzione dell’adozione della forma organizzativa del lavoro agile nella quasi totalità dei rapporti di lavoro, con il conseguente risparmio degli spazi destinati a luogo di lavoro dentro il perimetro aziendale, ma anche con una incisiva ridefinizione del debito contrattuale del lavoratore, che viene stabilito sempre meno in termini di estensione temporale della prestazione e sempre di più in termini di risultato produttivo, misurato secondo parametri concordati. Quando questo modello di organizzazione del lavoro diventerà maggioritario il tema del superamento del vecchio criterio di distinzione fra lavoro autonomo e lavoro subordinato si imporrà come centrale e urgente. Quel modello, tuttavia, è ancora minoritario; dopo la fine della pandemia di Covid, a fronte di una larga diffusione della richiesta di mantenimento del lavoro agile da parte dei dipendenti, si assiste a una tendenza prevalente, nelle imprese, a riportare il lavoro impiegatizio all’interno del perimetro aziendale, anche se non necessariamente con un vincolo di orario rigido. La legge e la contrattazione collettiva potranno operare utilmente a favore della fluidificazione dell’accordo negoziale tra le parti sul piano individuale, nonché della reversibilità dell’accordo stesso; ma difficilmente potranno imporre limiti minimi o massimi, come era accaduto nell’ultimo ventennio del secolo scorso per il part-time. Sarà comunque bene che si astengano dal tornare a battere quella strada.
Al di là di quanto previsto da legge e contrattazione collettiva, appare ormai sempre più evidente una generale tendenza, per molte delle nuove professioni, a svincolarsi da una rigida determinazione temporale della prestazione, che incomincia a essere misurata anche secondo altri criteri (obiettivi, professionalità, disponibilità all’aggiornamento, adattabilità agli shock tecnologici e di mercato, ecc.). Quali scenari potrebbe aprire e quali ricadute potrebbe avere sul sinallagma contrattuale una simile evoluzione?
Accennavo prima al probabile prossimo tramonto del criterio distintivo tra lavoro subordinato e autonomo basato sull’assoggettamento pieno della prestazione a eterodirezione: criterio la cui applicazione – direi di più: la cui applicabilità – è resa sempre più problematica dalla digitalizzazione dell’organizzazione del lavoro. A maggior ragione dobbiamo mettere in conto il tramonto del criterio – peraltro a mio avviso molto sopravvalutato anche in riferimento al modello tradizionale di organizzazione del lavoro – dell’“inserimento” della prestazione lavorativa nell’organizzazione aziendale, nonché di quello, recentemente introdotto dall’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 in riferimento alle collaborazioni autonome continuative, della “etero-organizzazione”. Quando gli sviluppi del progresso tecnologico avranno reso evidente l’inutilizzabilità di questi criteri di delimitazione del lavoro che necessita di protezione, il concetto di subordinazione dovrà essere sostituito con quello di dipendenza economica. Già se ne è avuta una prima avvisaglia con la disposizione contenuta nella legge Fornero n. 92/2012, che estendeva l’area della protezione ai rapporti caratterizzati da continuità nel tempo, monocommittenza e fascia di reddito bassa: i tratti essenziali, appunto, della situazione di dipendenza economica della persona che lavora.
La tua monografia del 1984-85 ha avuto un seguito nel commento degli articoli 2107 e 2108 del Commentario del Codice civile diretto da Piero Schlesinger: una sorta di ristampa o una nuova edizione riveduta e corretta?
La prima edizione del Commentario degli articoli 2107-2109, che ebbe anche la ventura di essere il primo volume di quella collana, uscì appena due anni dopo il secondo volume della monografia e ne configurava sostanzialmente una sorta di editio minor aggiornata nei riferimenti giurisprudenziali e dottrinali e completata con una sintesi dei contenuti dell’articolo da cui questa intervista prende le mosse. Nella seconda edizione del Commentario, uscita nel 2012, la parte di commento della legge vigente è interamente riscritta in riferimento alla riforma della materia contenuta nella direttiva comunitaria n. 2003/88 e nel decreto delegato n. 66/2003 con cui essa era stata recepita. Allora ero impegnato in Senato e non avrei potuto affrontare l’integrale riscrittura di questa parte del Commentario: questa parte della nuova edizione ha potuto uscire soltanto per merito della co-autrice Lucia Valente.
Nel 1985 hai chiuso il saggio constatando che, in materia di tempi di lavoro, restava ancora molta strada da percorrere. A che punto siamo arrivati oggi? Quali possono essere le linee di sviluppo cui consigli di prestare attenzione a quanti oggi si avvicinano allo studio di una materia affascinante come è quella del tempo di lavoro?
Fin dall’Obligationenrecht di Friedrich Karl von Savigny del 1851, la questione di che cosa sia il tempo e dei diversi profili di rilevanza che esso può assumere nella struttura dell’obbligazione ha assunto importanza centrale nella letteratura civilistica. Curiosamente, invece, l’importanza della questione ha tardato molto a essere messa a fuoco sul terreno giuslavoristico (nonostante che la legislazione sul contratto di lavoro abbia mosso i primi passi proprio con la legge sul limite dell’orario di lavoro settimanale): al punto che qui in Italia su questa materia è mancato del tutto uno studio di buon livello fino la pubblicazione, nel 1980, della voce di Maria Vittoria Ballestrero sull’Orario di lavoro nell’Enciclopedia del diritto. Nel panorama giuslavoristico internazionale, del resto, fino alla fine degli anni ’70 le cose non sono andate meglio: solo con la riduzione dell’orario settimanale in Francia del 1981 il tema del tempo di lavoro, soprattutto in quel Paese, è tornato al centro dell’attenzione di giuslavoristi, economisti e sociologi del lavoro. Oggi i profondi mutamenti che il progresso tecnologico porta con sé nell’organizzazione del lavoro, e di riflesso nella struttura effettiva della prestazione di lavoro dipendente, impongono che venga ristudiata dalle fondamenta l’intera materia della rilevanza del tempo come elemento (non più necessariamente essenziale) della fattispecie e poi come oggetto della disciplina del rapporto.