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Istruzioni per combattere il populismo ‘cattivo’

Pietro Salinari venerdì 20 Novembre 2020
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di Pietro Salinari

 

Un ampio articolo di Tonini – “Il partito che serve all’Italia” su Il Foglio del 21/9, ripubblicato anche qui sul sito di Libertà Egualeintroduce il concetto di populismo buono e populismo cattivo. Questo è sicuramente un merito, perché, come Tonini afferma, non può esserci pensiero democratico che non contenga in sé “una dose ragionevole e controllata di populismo”.

Ma è importantissimo trovare delle chiare discriminanti tra populismo buono e populismo cattivo, soprattutto perché il declino trentennale dell’Italia, coincidente con il costante allontanamento di quasi tutti gli indici da quelli della media degli altri paesi europei, e l’anormalmente alto rapporto indebitamento/PIL fanno pensare che in Italia ci sia stata, sin ora, una netta prevalenza del populismo cattivo. Vedo quindi il concreto pericolo che, ammettendo l’esistenza di un populismo buono, da perseguire lodevolmente, si apra una crepa attraverso la quale possa passare un’altra ondata di populismo cattivo.

 

Populisti made in USA

Tonini stesso offre un suggerimento  per cercare i suddetti criteri discriminanti, facendo cenno ai populisti statunitensi. Infatti mentre le esperienze  sud americane, portando al collasso interi paesi, hanno creato una pessima fama al populismo, c’è chi sostiene che alcuni partiti e movimenti di idee populisti abbiano concorso a rafforzare la democrazia nelle prime fasi della storia degli Stati Uniti. E il ritorno allo spirito di quei padri fondatori è stato sostenuto da un giovane professore della Brooklyn Law School, K. Sabeel Rahman, “Democracy against domination” , Oxford University Press 2016, che fornisce anche una buona bibliografia su personaggi come  Louis Brandeis o John Dewey.

 

Discriminanti tra populismo buono e populismo cattivo

Mi sembra che tre princìpi possano aiutare a discernere il populismo buono da quello cattivo:

 

1- Dire la verità e tutta la verità al popolo

Con questo intendo dire che non solo non bisogna mentire o fornire risposte mistificanti ai bisogni del popolo, ma occorre anche fornire risposte sostenibili e che non portino alla rovina il paese. Un esempio di contravvenzione alla prima variante di questo precetto è dato dalle politiche di Salvini nei confronti dell’immigrazione: vengono colti degli elementi di reale disagio ma invece di tentare di risolverli lì si esagera a parole e soprattutto si prendono provvedimenti che portano ad aumentare tali disagi, come lo smantellamento delle misure di accoglienza, che aumentano la percentuale di immigrati disadattati spingendoli verso la delinquenza e quindi amplificando i disagi che, a parole, si vorrebbero eliminare. Esempi del secondo tipo abbondano in tutta la storia latino americana e nella politica italiana degli ultimi decenni: non c’è dubbio che fossero reali le esigenze la cui soddisfazione irresponsabile ha portato all’incremento del debito pubblico italiano, e certamente i percettori delle pensioni baby sono stati soddisfatti, ma le conseguenze di quelle scelte in materia pensionistica  (e di altre scelte che hanno aumentato il debito pubblico senza favorire né l’eguaglianza né lo sviluppo) hanno pesato negli anni successivi, limitando le politiche del welfare per mancanza di fondi e sbilanciandole a favore della spesa pensionistica, a danno di altre quali le politiche attive per il lavoro.

 

2- Rendere partecipi i cittadini, adeguatamente informati, delle decisioni importanti che li riguardano

Questo è il terreno su cui il libro succitato di Rahman si cimenta maggiormente, caldeggiando forme di democrazia partecipativa e  illustrandone varie esperienze, nel contempo prendendo le distanze sia da forme di democrazia plebiscitaria, fondate sulla risposta binaria a domande mal poste e che nascondono la natura complessa dei problemi, sia dai tentativi di affrontare la complessità con soluzioni tecnocratiche non sottoposte al controllo democratico.

 

3- Essere “accountable”

Con questa espressione si intende che chi prende una decisione o compie un’azione deve al contempo fornire a  coloro ai quali deve rispondere (nel caso di un politico ai cittadini) non solo i motivi che lo hanno mosso, ma anche le informazioni e gli strumenti per poter giudicare il suo operato.  Questa pratica costituisce una “seconda linea di difesa” rispetto all’auspicio della democrazia partecipativa: dato che rendere partecipi e informati i cittadini è un’impresa complicata, difficile e che richiede tempo, qualora non fosse possibile realizzarla prima di decisioni importanti, è auspicabile mettere i cittadini in grado di capirle e quantomeno giudicarle a posteriori.

 

Mi sembra che questi principi comprendano quelli indicati da Tonini, che definisce il populismo buono come “credibile e non demagogico, sostenibile e non illusorio, intellettualmente onesto e non cinicamente strumentale”, ma introducano qualche ulteriore specifica. A ben vedere un elemento che unisce tutti questi concetti è di considerare buono un populismo che, anziché fare regalie, tenta di far funzionare al meglio e di potenziare la democrazia, dando più potere ai cittadini, creando regole che tendano a promuvere l’uguaglianza e consentendo e promuovendo la capacità dei cittadini di esercitare un controllo informato sui governanti.

 

Egemonia senza consenso ?

Prima  di esaminare alla luce di questi princìpi qualche esempio della recente storia italiana, vorrei commentare altre due passaggi dell’articolo di Tonini: quello che più mi ha colpito  è l‘espressione, giustamente definita paradossale dall’autore stesso, che il PD godrebbe di una “egemonia senza consenso”. Penso che ciò sia così poco vero, che anzi sia vero proprio il contrario: il PD soffre di un calo di consensi proprio a causa della mancata egemonia. Come pure mi sembra una pericolosa illusione credere che la cultura del PD sia <l’unica a presidiare il ‘principio di realtà’>. Quindici anni fa Luca Ricolfi scrisse un libro, “Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori”, proprio per metterci in guardia da questo tipo di posizioni. Se non si è convinti dalle argomentazioni di  Ricolfi, si leggano con attenzione le analisi di Paolo Segatti, da cui si desume che il nostro elettorato dissentiva da alcune nostre posizioni, come quella  sui migranti, molti anni prima di smettere di votarci e ci ha abbandonato quando gli è sembrato che altre proposte politiche presidiassero meglio un principio di realtà: quello che gli immigrati non siano solo una risorsa (affermazione che è vera, ma purtroppo solo una mezza verità) ma possano anche essere un problema. Più in generale Segatti sostiene che chi ha votato Lega o M5S non lo ha fatto perché convinto dalle loro idee ma per manifestare lo scontento verso la situazione attuale, e verso chi era al governo in quel momento: altro che egemonia!

 

La tragedia del declino

Non c’è da stupirsi che ci sia un diffuso scontento: da almeno 3 decenni diminuisce non solo il tasso di crescita del PIL, e molti altri indicatori. A questo proposito Ignazio Visco  illustra con ampio supporto di dati come il declino e il distacco dagli altri paesi europei riguardi anche il Pil pro capite, la competitività, la produttività, il capitale fisico, umano e di conoscenze, il contenuto di innovazione delle nostre produzioni, l’eccesso di regolamentazione, l’efficienza della pubblica amministrazione. Questo declino si ripercuote anche nell’aumento della povertà, nell’aumento delle disuguaglianze, nel distacco tra Nord e Sud.

Il declino è stato ampiamente analizzato da vari economisti e chiaramente percepito dai cittadini (termine che preferisco a “popolo”), che sono quindi legittimamente indignati che ad esso non si ponga rimedio o quantomeno se ne discuta.

 

Nessuno aggredisce i nodi strutturali del declino

Tuttavia pur essendosi alternate varie compagini politiche in questo arco di tempo, il tasso di declino non ha presentato significativi rallentamenti e, meno che mai, segni di inversione. Si può quindi affermare che chi si è alternato al governo non abbia mai affrontato i problemi dell’Italia con la radicalità che la gravità della situazione avrebbe richiesto, e che neppure i partiti di opposizione abbiano mai messo al centro della propria agenda  alcuni nodi strutturali, come la Pubblica Amministrazione, la Scuola, il Sistema Giudiziario.

Tuttavia benché questo non occuparsi del declino sia assolutamente bipartisan, questo atteggiamento si è manifestato in forme diverse: mentre la destra riconosce l’esistenza di un qualche problema, ma si guarda bene dall’affrontarlo seriamente e propone demagogicamente soluzioni irrilevanti o insostenibili, la sinistra in genere ricorre all’afasia, al “parlar d’altro”; questo atteggiamento può attribuirsi alla mancanza di coraggio o alla mancanza d’idee; invece io penso che dipenda in larga parte dalla compresenza di idee diverse (potenzialmente una ricchezza) che non riesce trovare una sintetesi e superare una situazione di veti incrociati. Per esempio la breve stagione del governo Monti è stata caratterizzata da un appoggio tiepido di entrambi gli schieramenti, che è stato ritirato appena l’emergenza è passata, e in seguito la destra si è posta l’obiettivo di smantellare i provvedimenti presi, la sinistra si è rifugiata nell’afasia, tentata anch’essa di prendere le distanze da provvedimenti impopolari e incapace di inserire le misure prese da Monti in un contesto più ambizioso (strategie di lungo periodo e non provvedimenti di emergenza), preoccupandosi nel  contempo delle esigenze dei ceti popolari.

 

La parentesi Renzi

Una breve parentesi nella sindrome dell’afasia si è avuta nel periodo Renzi. Questi ha tratto profitto dalla diffusa scontentezza nel partito e nel paese per l’immobilismo bersaniano, con lo slogan del rottamare; ha correttamente messo al centro delle proprie proposte la necessità di “cambiar verso”, ha messo in opera una piccola dose di populismo buono con gli 80 euro (buono perché affrontava un problema reale, quello della tassazione dei redditi più bassi e perché realizzato in forma sostenibile), ha ceduto alla tentazione di promesse poco credibili (una riforma al mese), contravvenendo al precetto “dire la verità”, ma sopratutto si è nettamente orientato verso la soluzione “un sol uomo al comando”.

Questo ha avuto effetti rovinosi; quelli che sono culminati nella sconfitta del referendum sono stati largamente analizzati, molto meno il fallimento nel tentativo di riforma della scuola. In questo caso si sono “presidiati alcuni principi di realtà” (per altro serenamente ignorati nei decenni precedenti) come considerare una pazzia riempire la scuola di precari, che gli insegnanti debbano stare dove ci sono gli alunni, che sia una pazzia che insegnanti bravi e scalda-sedia abbiano stesso stipendio, che sia difficile attrarre persone di valore se non esistono possibilità di carriera, che i presidi debbano avere qualche potere.

Sono stati fatti dei timidi passi per cominciare a correggere queste storture, sperando di ammansire il sindacato con una delle più grosse sistemazioni di precari degli ultimi decenni e con stanziamenti mai visti, ma non si è fatto il minimo tentativo di avviare un dibattito su questi temi nel partito e nel paese; una decisione sorprendente, se si pensa che il PD è l’unico partito italiano ad avere una rete capillare di circoli e una corposa mailing list di primatisti: è evidente che il tentativo di risolvere nodi incancreniti e non affrontati per anni senza far leva su questi punti di forza è destinato all’insuccesso.

 

Recuperare l’egemonia con principi di realtà e più democrazia

Dopo la caduta di Renzi si è tornati alla fase in cui le nostre proposte non sono chiare e nulla fa intuire se si utilizzeranno i notevoli mezzi di cui si parla per invertire il declino dei precedenti decenni o per riprendere quel trend, ovviamente con velocità accelerata. E’ ovvio che non basta allocare ingenti risorse nel digitale e nell’ecologia se non si sciolgono tutti i nodi a cui accennavamo sopra e che Visco ha ben illustrato nel libro che ho citato: se non si condurrà una battaglia accanita contro il “populismo cattivo” e insostenibile (e contro il preteso populismo buono che non risponde ai criteri predetti), se il sistema giudiziario e la farraginosità delle pratiche scoraggerà gli investimenti privati, se l’inefficienza della P.A. bloccherà o sperpererà gli investimenti pubblici, se la scuola con insegnanti mal selezionati, mal pagati e mal motivati  continuerà a fornire competenze mediamente inferiori a quelle europee, e nei settori sbagliati, allora l’economia non riprenderà la crescita, ci ritroveremo con un rapporto debito/PIL immenso e gli interessi non saranno sempre a quei livelli vicini allo zero che attualmente ci consentono di sostenere il debito.

Da più parti si è raccomandato al PD di esporre chiaramente le nostre idee, in un dibattito pubblico con un confronto chiaro con i nostri alleati, che può anche concludersi con un compromesso ma che  chiarisce in ogni caso al paese i nostri obiettivi; suggerirei di fare la stessa cosa nei circoli e con i primaristi: occorre condurre una aperta e chiara battaglia culturale al nostro interno, dire la verità, coinvolgere il massimo numero di persone nella ricerca di soluzioni e cercare di riguadagnare un più ampio consenso elettorale,  e costruire quell’egemonia che purtroppo attualmente non abbiamo.

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