di Fabrizio Macrì
Nonostante la forte crescita delle esportazioni registrata negli ultimi anni e il consolidamento del nono posto tra i maggiori paesi esportatori al Mondo, l’Italia ha un tasso di apertura della sua economia ancora inferiore a quella dei suoi competitor più diretti come Germania, Francia e Spagna.
Dal 1979 ad oggi il tasso di apertura economica dell’Italia (Import + Export in rapporto al PIL) è aumentato dal 22 al 29%, nello steso periodo in Germania dal 18 al 46%, in Francia dal 20 al 30% e in Spagna dal 14 al 33%.
Il tasso di crescita delle esportazioni è stato negli ultimi anni tra i più alti tra i paesi dell’OCSE e nel 2017 l’Italia ha fatto meglio di tutti, tranne che di Olanda e Corea del Sud sul fronte dell’export (*7,4% sul 2016); secondo uno studio di SACE, la leva delle esportazioni è stata l’unica tra le componenti della domanda nazionale tra il 2010 ed il 2017 ad incidere positivamente sulla crescita.
Quest’ultima tuttavia è almeno di un punto percentuale più bassa di quella registrata nelle maggiori economie europee di simili dimensioni.
Troppo bassa per assorbire l’elevato tasso di disoccupazione o per intaccare il disequilibrio strutturale tra Nord e Sud.
Sul ring della globalizzazione
Se quindi l’aumentata seppure tardiva apertura economica si è dimostrata essere una così efficace leva di sviluppo, perché il clima generale sembra essere ostile al processo di apertura dei mercati?
La globalizzazione e l’accresciuto tasso di apertura in effetti non hanno solo favorito la crescita dell’export ma hanno anche fatto venire a galla molte delle nostre magagne: la competizione ha esposto la nostra economia ad una concorrenza a basso costo e talvolta anche sleale che ha messo fuori mercato parte della nostra industria ed abbassato la media dei nostri salari aumentando la precarietà del lavoro.
Da qui nasce la pulsione protezionista che vorrebbe riportarci indietro di 30 anni ad un mercato semichiuso e ad uno Stato egemone.
Questa analisi però è solo parziale: è vero la globalizzazione è arrivata senza chiedere permesso; è stata però l’esito di processi di integrazione economica largamente annunciati di cui il nostro Paese è stato sempre protagonista come membro dell’OCM, dell’Unione Europea e Monetaria e del club esclusivo del G7, traendone per anni grandi benefici. Inoltre l’Italia ha sofferto la competizione anche di paesi più avanzati del nostro con un costo del lavoro paragonabile se non superiore, che però si sono saputi attrezzare per tempo con riforme tese all’aumento della produttività del sistema.
L’Italia deve attrezzarsi
La verità che purtroppo a fronte dell’accelerazione del tasso di apertura e concorrenza negli scambi commerciali e i flussi d’investimento e a fronte dell’ingresso nell’area Euro, l’Italia ha svolto un ruolo passivo senza attrezzarsi in modo sistemico per cogliere le enormi opportunità che questo mutato contesto avrebbe potuto generare per noi.
Essere saliti sul ring della globalizzazione senza essersi allenati ha generato un arretramento economico complessivo cui l’export di alcuni settori da solo non è stato in grado di porre un freno. La parte cioè dell’economia rappresentata dalle nostre imprese “esportatrici sistematiche” per lo più di media dimensione che ha reagito con successo all’apertura dei mercati, è troppo piccola per tirarsi dietro il resto del sistema fatto in maggior parte da economia protetta dalla concorrenza, rendite e spesa pubblica improduttiva.
Sarebbe stato necessario in primis una riorganizzazione ed efficientamento della spesa pubblica che ci consentisse da un lato di abbassare in modo sostanziale la tassazione sulla parte più produttiva e dinamica della nostra industria del Nord, investendo anche risorse nei settori tecnologicamente più avanzati e meglio in grado di competere, e dall’altro di creare meccanismi di reinserimento sul mercato e nel mondo del lavoro di imprese e lavoratori rimasti fuori dal processo d’integrazione e vittime della “selezione naturale” che la globalizzazione ha operato.
La nostra economia non è vittima della globalizzazione ma del fatto che non ha introdotto cambiamenti abbastanza profondi per poterne trarre beneficio, come è avvenuto ad esempio nei Paesi Scandinavi o in Germania, dove un alto tasso di produttività convive con un sistema di protezione sociale più ricco ed efficace del nostro.
Per una società aperta
Il protezionismo, lungi da essere un modo efficace per combattere concorrenza sleale basata su mancanza di reciprocità, dumping sociale e ambientale, rischia di essere un’illusione e un modo di evitare di fare i conti con le nostre mancanze come sistema paese: figlio di un atteggiamento mentale che scarica sempre su fattori esterni al nostro controllo la responsabilità delle nostre mancanze.
Una fuga collettiva dalla realtà e dalla responsabilità.
L’apertura economica va aumentata così come la nostra capacità di stare sui mercati, non per scelta ideologica liberista (visto che l’Europa è ricca di socialdemocrazie competitive) ma per una doverosa e pragmatica presa d’atto della realtà che ci circonda e perché stimolo al rafforzamento del nostro Paese, che altrimenti si ripiega su se stesso e lentamente regredisce.