di Carlo Fusaro
Spiace che il segretario del Pd Letta dopo aver compiuto alcune scelte coraggiose (prima fra tutte il sostegno senza se né ma all’Ucraina aggredita da Putin e alla sacrosanta reazione anche italiana di soccorso anche di armi all’aggredito), si sia lasciato trascinare da cattivi consiglieri e non solo abbia deciso per un fronte elettorale ben più disomogeneo di quello delle tre destre unite, ma per farlo abbia fatto propri alcuni degli argomenti di alcuni estremisti di sinistra abituati a gridare ad ogni pie’ sospinto alla Costituzione minacciata: con notevole successo va detto visto che – complici proprio quelle destre (quelle!) e il M5S (quello!) che vogliono combattere – sono riusciti ad affondare la vera grande riforma possibile, quella Renzi-Boschi del 2016 con tanto di legge elettorale… (l’Italicum, che era una ottima: ripeto, ottima legge elettorale).
Il bello è che costoro tutti, Letta in testa, attribuiscono alla successiva legge Rosato (figlia di una delle più cervellotiche sentenze della storia della Corte costituzionale che aveva lasciato un sistema monco che faceva acqua da tutte le parti e aveva – semplicemente – cercato di istituire le preferenze al Senato che pure non le aveva avute MAI dal 1948) le proprie debolezze, inadeguatezze e responsabilità.
Che la legge Rosato voglia indurre con ⅜ di collegi uninominali a mettere insieme ciò che è diviso (possibilmente ma non necessariamente) in vista di un governo successivo insieme in caso di vittoria è un fatto: ma (1) non è un obbligo, (2) dipende dalla volontà degli elettori, (3) dipende dalla volontà, ancor prima, di chi costruisce l’offerta politica: i partiti; (4) valeva per le Mattarella e per la Calderoli, non è un’invenzione della Rosato. I partiti ora, diversamente da prima, riconoscono provocatoriamente di peccare (e parecchio) ma dicono che sarebbe la legge Rosato a obbligarli a… peccare.
E’ falso. Basti pensare alla precedente legge (la Calderoli) che di incentivi a mettersi insieme fra non omogenei (vero Unione 2006?) ne aveva MOLTI di più (bastava un voto in più in tutta Italia per vincere un premio significativo e governare, valevano tutti i voti degli alleati: oggi solo quelli di chi prende oltre l’1%, c’erano le candidature plurime in fino a TUTTE le circoscrizioni, ora solo 5 collegi): eppure quel galantuomo di Veltroni dopo la fallimentare esperienza Prodi NON SI MISE A PIAGNUCOLARE CHE LA LEGGE ELETTORALE CATTIVA LO COSTRINGEVA ALL’AMMUCCHIATA, semplicemente si rifiutò di farla (altro che alleanze tecniche: tecniche, in politica!). Dice: perse. A parte che perse perché NON POTEVA NON PERDERE, ma ebbe il miglior risultato elettorale della storia della sinistra (superato solo nel 2014 da Renzi, ma alle Europee).
Quello che valse per Veltroni (andò da solo, rectius: col solo Di Pietro, poca cosa; e permise anche a Berlusconi di far lo stesso: erano i tempi belli del predellino), non sembra valere per Letta, purtroppo. E sì che anche Letta è davanti a una sconfitta annunciata che gli avrebbe permesso di scommettere sul futuro, costruendo qualcosa di solido. Invece no ed eccolo che vuole partire da Gelmini e finire a Fratoianni.
Il peggio è che lo fa sposando la motivazione di quest’ultimo: VA DIFESA LA COSTITUZIONE DALLE DESTRE CHE POSSONO SFIGURARLA CONQUISTARE I ⅔ DEI SEGGI. Primo, è folle regalare l’argomento della riforma del regime politico alle destre che altro non chiedono: non io ma il Parlamento italiano dice che ciò serve come il pane e lo dice da 40 anni. Ne ha perfino varate due di riforme (2006 e 2016). Secondo è una balla. Lo spiego nel prossimo articolo.
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).