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La battaglia politica di Macaluso per l’innovazione della sinistra

Enrico Morando venerdì 29 Gennaio 2021
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di Enrico Morando

È stato detto in questi giorni che Emanuele Macaluso avrebbe lasciato la sua quotidiana attività di dirigente politico alla fine del 1989, per iniziare quella, altrettanto quotidiana, di giornalista, polemista, animatore della battaglia politico-culturale.

È un’affermazione che può essere condivisa solo da chi ritiene che l’Area riformista del PCI-PDS, per tutta la prima metà degli anni 90, non abbia svolto alcun ruolo significativo nella vicenda politica della sinistra e del centrosinistra italiani. Proprio Emanuele, infatti, fu il coordinatore di quest’Area – prima di fatto e poi anche di diritto -, tra il 29 dicembre del 1989 (quando, in una riunione a casa di Paolo Bufalini, si decise per un documento di adesione motivata alla mozione del Segretario Occhetto), e il 7 novembre del 1994 (quando essa si sciolse, accogliendo la proposta avanzata dallo stesso Macaluso).

Fu un periodo politicamente creativo, nel mondo (e nell’Italia) che si liberava dalla camicia di forza della guerra fredda. Fu un periodo di lotta politica durissima, senza esclusione di colpi. Un periodo esaltante, perché si aprivano finalmente nuove, realistiche possibilità di libertà ed eguaglianza. E un periodo drammatico e lacerante, nella coscienza di ciascuno e nella relazione di ciascuno con gli altri. Macaluso non era certo uno di quelli che accettano cariche operative e le interpretano come decorative onorificenze. Gli era stato affidato un ruolo di direzione politica e lo aveva accettato esattamente perché pensava di esercitarlo, con impegno e massima determinazione.

La cifra del suo stile e del suo orientamento fu l’innovazione, giacché -avrebbe scritto nella relazione per la riunione del novembre 1994 – se si voleva dare al nuovo partito “i tratti del socialismo democratico europeo, recuperando il nucleo vitale della storia del PCI”, bisognava esplicitamente superare “quei limiti, condizionamenti e comportamenti che venivano dalla tradizione comunista e che avevano fatto ostacolo al pieno dispiegamento del partito come forza di governo”.

L’iniziativa dell’Area riformista si giustificava come iniziativa autonoma rispetto al segretario Occhetto, perché “il Pds non si è dato un impianto politico-culturale fondato sul socialismo riformista”. Un impianto che aveva nell’esplicito rifiuto di ogni ipotesi di “salto di sistema” il suo fondamento ultimo, secondo la lezione che – formulata ai primi del 900 da Bernstein – aveva trovato pieno accoglimento solo nel congresso della SPD di Bad Godesberg (1959).

Non voglio far torto ad Emanuele, descrivendolo più di tanto appassionato a quelle dispute ideologiche che piacevano moltissimo ad altri esponenti della sua Area (Ranieri, Minopoli, il sottoscritto). Voglio solo ricordare quanto fosse esigente l’innovazione di cultura politica su cui poggiava la battaglia politica quotidiana dell’Area che Macaluso dirigeva, che presto si sarebbe impegnata in un duro scontro politico con larga parte della maggioranza che aveva sostenuto, prima al congresso di Bologna e poi a quello di Rimini, la svolta di Occhetto.

Nel giugno del 1992, Macaluso e i riformisti presentano un documento in cui propongono:

A) di assegnare carattere costituente alla legislatura appena aperta;

B) di ammettere l’esistenza di “un ambito più o meno esteso di iniziativa finanziaria non trasparente” anche per il PCI-PdS e di adottare forme di controllo “esterno” sui bilanci dei partiti;

e C) di lavorare “all’alternativa di governo alla DC, attraverso l’unità delle forze socialiste”, previa una effettiva apertura al Governo Amato.

Allora l’attenzione si concentrò sull’apertura al Governo Amato, ma è difficile non vedere come le prime due proposte spingessero il nuovo partito non solo “oltre”, ma per molti aspetti addirittura “fuori” dalla tradizione, per quanto originale, dei comunisti italiani: le regole si scrivono insieme, ma poi si compete tra diverse proposte di governo, e sono gli elettori, in ultima sede, a decidere. E non c’è la “doppia verità”, quella del Partito e quella dello Stato, ma un unico vincolo alla trasparenza e alla legalità.

Non era dunque un caso che i riformisti del PDS – a partire da Augusto Barbera, vice presidente del Comitato Segni – fossero in quel momento impegnati nella promozione dei referendum elettorali per il maggioritario. E che essi respingessero come irricevibile la posizione di quanti, nel PDS, ritenevano che “una campagna indiscriminata contro la ‘partitocrazia’ corrotta e l’appoggio acritico all’azione giudiziaria, si sarebbero risolti in una delegittimazione di tutte le forze politiche, tranne il PDS”, come dirà Macaluso nella relazione alla riunione dell’Area del novembre del 1994.

Dalla battaglia per il maggioritario Macaluso – senza farsi frenare da “dissensi interni” all’Area, che pure c’erano stati -, traeva conseguenze precise e molto innovative in tema di leadership: “La questione di una leadership autorevole e credibile non è secondaria in un sistema maggioritario”. “È stato quindi un errore gravissimo” quello di Occhetto leader non leader nelle elezioni del 94. E faceva seguire a questo giudizio generale una più sferzante critica “interna” al PDS: “Ogni volta che da persone autorevoli della sinistra o da gruppi politici esterni al PDS veniva avanzata la candidatura di Giorgio Napolitano come possibile leader…, le resistenze e le avversioni (più occulte che palesi) sono venute dall’interno del PDS”.

Quando l’Area riformista si divide tra i sostenitori di D’Alema e quelli di Veltroni per la sostituzione di Occhetto, Macaluso (che alla fine voterà per Veltroni) si chiederà polemicamente “perché non si porta l’autocritica (sulla tardiva collocazione del PDS nella sinistra socialdemocratica europea) alla coerente conseguenza di proporre Napolitano a Segretario del PDS, come espressione non di una componente, ma di una cultura che di questo punto nodale ha fatto l’asse della sua battaglia e della sua stessa esistenza, ma per questo è stata emarginata” (l’Unità – 1 luglio 1994).

Infine, Macaluso è stato tutt’altro che estraneo all’apertura del confronto – nella sinistra italiana – per la costruzione di un partito che fosse, esso stesso, di centrosinistra, secondo l’accezione che proprio in quegli anni cominciavano a darne gran parte dei partiti socialdemocratici europei.
Nella riunione che segna l’esaurirsi dell’esperienza dell’Area riformista, Macaluso ne individua con lucidità un limite: non essersi “misurata con più incisività con forze e culture che, in Italia e in Europa, costituiscono o possono costituire un arricchimento della tradizione socialista”.

E insiste: “È mancata una riflessione più generale su cosa possa essere il riformismo nell’epoca attuale, con classi sociali del tutto diverse da quelle in cui si formò una cultura riformista socialista in Italia e in Europa”. Per concludere, come si direbbe ora, col botto: “C’è (nel Segretario D’Alema) una giusta preoccupazione politica di allacciare un rapporto col centro, ma non c’è una iniziativa per fare del PDS un partito che abbia, in sé medesimo, parte di questo centro-sinistra. Temo cioè, che il quadro delle alleanze venga visto in un’ottica tradizionale: una sinistra legittimata a governare grazie ad un accordo con il centro”.

Questo tema non sarà mai il fulcro dell’iniziativa dell’Area riformista, che con Macaluso era tuttavia arrivata ad enunciarlo con impressionante anticipo sui tempi di evoluzione della sinistra italiana. Macaluso, nella riunione più volte citata in questo articolo, descriverà il compito che stava di fronte alle forze di centrosinistra con le parole usate da Umberto Ranieri alla riunione di fondazione (ottobre 1993) del Centro di Iniziativa del Socialismo Democratico e Liberale (CISDEL), cui l’Area riformista aveva concorso, insieme a personalità come Giorgio Ruffolo, Salvatore Veca e Massimo Salvadori:

Superamento di un triplice mito che ha condizionato la storia politica italiana del dopoguerra: 1) unità politica dei cattolici…; 2) unità politica delle forze laiche, espressa nella estenuante ricerca della ‘terza forza’; 3) unità della sinistra”.

Sono stati moltissimi, in questi giorni tristi per la scomparsa di Emanuele, a ricordare che non condivise la scelta di far nascere il PD e non volle mai iscriversi al nuovo partito. Verissimo. Ho scritto queste righe non per farlo diventare il padre di un partito che non ha mai apprezzato, ma per dimostrare quanto sia stata importante, per noi che quel partito l’abbiamo invece progettato e voluto, la spinta ad innovare di un dirigente politico realista e visionario come Macaluso. Se mi potesse vedere, mi fulminerebbe con lo sguardo e con le parole: “Non vi ho certo detto io di farlo così male, questo partito”. E ricominceremmo a discutere animatamente. Non puoi sapere quanto lo vorrei, Emanuele.

 

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