di Tommaso Sacconi
Intervento svolto nel corso della presentazione del volume L’apocalisse della democrazia italiana di Schadee, Segatti e Vezzoni (ed. Il Mulino) – Roma, 31 gennaio 2020
Vi ringrazio per l’invito, sono qui a parlare per conto di Agenda, un think tank giovanile con sede all’Enciclopedia Treccani che abbiamo costituito insieme a giovani studenti e professionisti dall’Italia e da molte capitali europee.
La lettura del libro L’apocalisse della democrazia italiana mi ha molto colpito. Non solamente per il rigore della sua analisi, che in un campo spesso dominato dal chiacchiericcio e dal senso comune come quello della politica è una boccata d’aria fresca. Ma questa lettura è stata importante sopratutto per ciò che è stato possibile imparare sul nostro Paese, su quello che sta succedendo nel profondo dell’opinione pubblica e della politica e che spesso passa in secondo piano nel dibattito quotidiano più superficiale. È un libro che si concentra sui movimenti tettonici profondi, quelli che esplodono all’improvviso in terremoti durante le elezioni.
Volatilità del voto e nuova offerta politica
La prima lezione che possiamo prendere dalla lettura è che la volatilità dell’elettorato, di cui si parla spesso a sproposito, come se fosse una schizofrenia collettiva, è in realtà determinata da precisi meccanismi di ricomposizione dell’offerta politica, un offerta che meglio si è adattata ai cambiamenti di medio lungo periodo in atto nella società Italiana. Questa volatilità è spiegata dalla ricerca di cui stiamo discutendo con la capacità di alcuni attori di offrire novità forti e radicali (penso al Movimento 5 Stelle o alla Lega di Matteo Salvini), offerte che sono state in grado di politicizzare di più e meglio alcune tematiche sui cui molti italiani già avevano un’opinione diversa dai principali partiti della seconda Repubblica (Europa e migrazioni, ad esempio). Su questi temi, per quanto le preferenze degli elettori non fossero concordi con quella dei partiti, non si decidevano le elezioni. Non si votava su questi temi. Comprendere questa dinamica è molto utile per non fare errori di analisi e diagnosi.
Il muro tra destra e sinistra
Seconda importante lezione: le categorie di destra e sinistra continuano ad essere molto utili per strutturare lo spazio politico nella percezione degli elettori, così come nel determinare il comportamento di voto. In particolare, esiste una forte difficoltà per gli elettori del centrosinistra a dichiararsi disponibili a votare partiti di centrodestra, e viceversa. Solo il Movimento 5 stelle è riuscito all’inizio del decennio che ci siamo lasciati alle spalle a scongelare la scena politica, attraendo elettori da entrambi i poli.
Questo muro tra centrosinistra e centrodestra sfida molti discorsi che sentiamo fare quotidianamente sulla vicinanza e compatibilità valoriale tra partiti come Forza Italia e Partito Democratico. Gli elettorati non hanno questa percezione. È un dato significativo.
Il voto ‘fluido’ delle nuove generazioni
Sullo stesso argomento sono interessanti i dati sulle generazioni che hanno votato per la prima volta nel 1994. Chi è stato socializzato alla politica durante la seconda repubblica ha una percezione dello spazio politico diverso, ed ha una maggiore propensione a votare per due partiti diversi piuttosto che per un solo partito. Se questa maggiore “fluidità” c’è stata nonostante 20 anni di retorica aggressiva e delegittimante tra i due principali schieramenti politici, sarà molto interessante osservare tra qualche anno i dati sugli elettori che, come la mia generazione, hanno votato per la prima volte alle elezioni politiche nel 2018. In un quadro di profonda instabilità dell’offerta politica e del comportamento elettorale, posso immaginare che i nuovi cittadini abbiano ancora più facilità di chi li ha preceduti a dichiararsi disponibili a votare per partiti anche molto diversi.
Quale democrazia vogliono i cittadini italiani?
Un ultima lezione riguarda che tipo di democrazia vogliono i cittadini italiani nel nostro sistema politico. In tutte le rilevazioni dal 2005 ad oggi, gli intervistati che al tempo stesso condividevano l’affermazione “i cittadini dovrebbero avere più spazio nelle decisioni politiche” ed erano insoddisfatti del funzionamento del nostro sistema politico erano al di sopra della maggioranza assoluta. Da questi dati, può sembrare che gli italiani vogliano più democrazia diretta. Oppure una democrazia con istituti partecipativi più forti.
In realtà, argomentano gli autori, la domanda è di democrazia invisibile: cioè per un sistema politico democratico che sia in grado di risolvere problemi collettivi senza ricorrere al conflitto (percepito come artificiale); un sistema politico che non si fondi sull’articolazione discorsiva di problemi e soluzioni collettive, ma che risolva i problemi semplicemente grazie ad un idem sentire tra autorità e popolazione. Un dato molto interessante: in tutte le rilevazioni sul campione oltre il 50% degli intervistati risponde di essere d’accordo con l’affermazione “compromesso è svendere i propri principi”.
Stanchezza per la politica e partiti in affanno
È forse questa la chiave più interessante per leggere il doppio terremoto dell’ultimo decennio: una stanchezza per la politica, che gli autori riconducono alla gestione pessima della crisi del debito sovrano da parte della classe dirigente italiana. Tutti i partiti politici sono stati ritenuti responsabili della grande crisi. Probabilmente ha inciso una gestione politica della crisi che ha rifiutato la responsabilità, una gestione affidata ad un governo tecnico chiamato per “fare il lavoro sporco” ma sostenuto con poca convinzione da quasi tutte le forze politiche. Le stesse forze politiche che fino al 2011 si erano contrapposte con narrative e retoriche fortemente delegittimati e a tratti apocalittiche.
La letteratura politologica ci mostra che i partiti contemporanei, in quasi tutto l’occidente, sono in affanno per quanto riguarda l’espletamento delle funzioni che li vedono in relazione con la società: l’integrazione politica, l’aggregazione di interessi e domande, eccetera. Questi stessi partiti sono sempre più schiacciati sulla loro relazione con lo Stato e le istituzioni politiche: la formazione di politiche pubbliche, l’occupazione di uffici e cariche pubbliche, etc.
Il problema del reclutamento del personale politico
Dalla lettura possiamo possiamo dire che una mancanza fondamentale dei partiti, almeno dall’ultimo decennio, sia stata quella nel formare e reclutare personale politico e classe dirigente. Una funzione che radica i partiti nel luogo a cavallo tra politica e società, tra popolo e stato. I giudizi sull’autorevolezza, sulla capacità di risolvere i problemi e di gestire l’economia nazionale, sulla inutilità della stessa esistenza dei partiti politici in una democrazia impone una riflessione seria in tal senso. Se questo giudizio sia immeritato o no, ci interessa poco: la classe politica italiana, mai particolarmente amata dall’opinione pubblica, ha perso quasi del tutto la fiducia dei suoi cittadini.
Quanto la distanza tra classe politica ed elettori su alcuni temi approfonditi dal libro, come l’Europa e l’immigrazione, abbia influito su questo scollamento è un interessante spunto di dibattito.
Crisi di autorevolezza della politica e difesa dello status quo
Per concludere: adottando una prospettiva generazionale, una prospettiva vicina ai giovani che oggi in italia ha un gran bisogno di politica, quantomeno per provare a correggere alcuni nodi strutturali del nostro Paese, questo studio ci lascia una grande lezione.
La lezione è questa: l’insoddisfazione per la politica, accompagnata ad un autorevolezza minima della stessa, è la migliore difesa possibile dello status quo. Il voto per il cambiamento, come quello per il Movimento 5 stelle, è andato insieme a preferenze per politiche conservatrici. “Cambiare tutto, purché nulla cambi” è la frase con cui si conclude il libro.
Ed è forse questa la sfida che una politica che si vuole riformista deve raccogliere: offrire un progetto di cambiamento credibile, che sappia intercettare i bisogni, forse non sempre articolati a dovere e a volte confusi, di una generazione minoritaria demograficamente e spesso debole politicamente.
Almeno in attesa che questa mia generazione sappia dotarsi degli strumenti necessari per incidere, spero anche con l’aiuto di chi l’ha preceduta, per provare a raddrizzare e contribuire allo sviluppo del Paese.
Tommaso Sacconi studia scienze politiche alla Scuola Superiore Sant’Anna e all’Università di Firenze. È membro del think tank Agenda, con sede all’Enciclopedia Treccani.