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Cattolicesimo liberale e dossettismo. “La forza mite del riformismo” di Giorgio Armillei

Giovanni Cominelli sabato 14 Maggio 2022
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di Giovanni Cominelli

Il cattolicesimo politico ha ancora qualcosa da dire alla società e alla politica o è ormai ridotto a conati politico-culturali individuali dispersi sull’intero arcobaleno politico? Una risposta proviene dalla raccolta di scritti di Giorgio Armillei, morto prematuramente quasi un anno fa.

Circoscritti ai primi vent’anni del Terzo millennio e organizzati da Stefano Ceccanti e Isabella Nespoli, si muovono attorno a tre nuclei tematici: la critica quotidiana della ragion politica contingente, l’europeismo, le vicende del cattolicesimo politico in Italia.

Il titolo dell’antologia è “La forza mite del riformismo”, edita da Il Mulino 2022. Le categorie generali del liberalismo cattolico sono qui messe alla prova nella critica dello stato di cose presente e, in particolare, della sinistra, che l’Autore descrive come tuttora “impigliata in quel Novecento nel quale naviga ancora quella parte del Pd, che si ispira alla filiera Gramsci, Berlinguer, solidarismo cattolico, socialismo liberale, femminismo, ambientalismo, azionismo”.

Il cattolicesimo politico liberale, cui attinge creativamente Armillei, è quello che proviene da don Sturzo, che è poi confluito nella DC, progettata, tra il 17 e il 23 luglio 1943, a Camaldoli da Mons. Montini, da Mons. Bernareggi e da De Gasperi, fiorita per oltre quarant’anni e poi dissoltasi… liberalismo cattolico, che ha continuato con Pietro Scoppola e i suoi discepoli fucini, oggi dispersi produttivamente tra accademia, politica e istituzioni.

Che cosa significhi concretamente “liberale” emerge dall’analisi “geopolitica” del Pd, condotta con un affilato rasoio di Occam. Secondo questa analisi, il PD consta di tre aree: un centro doroteo, che, più o meno, gioca sul patronato delle cariche; una sinistra zingarettiana e corbyniana, che in linea di massima la pensa come il M5S; un pezzo liberale, che ancora si deve riprendere dalla sconfitta del 4 dicembre 2016. E che, però, si limita alla politics.

Il PD è descritto come prigioniero dentro “il quadrilatero della conservazione”.

Il primo bastione è quello del “neointransigentismo costituzionale”, in forza del quale la “Costituzione più bella del mondo” è immodificabile. Questo approccio impedisce di cambiare anche la seconda parte, quella che riguarda le istituzioni. Il conservatorismo istituzionale rinvia al cambiamento dei partiti e eventualmente della politica, mediante nuova legge elettorale, ciò che solo nuove istituzioni potrebbero realizzare: una nuova riconnessione tra cittadini, società civile, Stato. Che dalla faglia in allargamento tra società civile e Stato possano uscire i miasmi del populismo diviene a questo punto inevitabile. Il motore del cambiamento politico e partitico, secondo Armillei, è l’Institution Building. Così propone “una limpida e ben congegnata riforma semipresidenzialista, che ponga  le condizioni istituzionali per partiti coesi, semmai divisi dalla ricerca di una migliore logica governativa, con leader effettivi e responsabili verso la base elettorale”. Cominciare dal vertice o dalla base? La risposta: “occorre cominciare da ciò che condiziona piuttosto che da ciò che é condizionato, se si vuole realmente riformare il nostro sistema politico, le nostre istituzioni di governo e il nostro sistema dei partiti, restituendogli il profilo costituzionale di «soggetti della democrazia»”.

Il secondo bastione è quello del giustizialismo, dal quale tutt’oggi il PD fa fatica a congedarsi.

Il terzo è “lo statalismo azionista”. Secondo questa filosofia politica, il Bene comune non viene definito nella libera dialettica civile e politica, ma dallo Stato, che è, in quanto tale, sovraordinato alla società civile e alle stesse istituzioni repubblicane. Viceversa, nella concezione poliarchica – ispiratore R. A. Dahl – della “statless society” “la politica è un pezzo di società accanto ad altri, con una sua funzione specializzata e suoi precisi confini”. “E non c’é nulla di anomalo nel fatto che economia, cultura, religione la condizionino e – per certi aspetti – la regolino”. Si tratta di una concezione sussidiaria, non perfettista dei rapporti tra società e stato. Ma lo statalismo ha sempre avuto forti radicamenti nel mondo cattolico, non solo in quello degli anni ’30, ostile e comunque diffidente nei confronti delle democrazie anglosassoni e… protestanti. Del resto, Mons. Olgiati, tra i fondatori dell’Università Cattolica, scriveva negli anni ’20 a Padre Gemelli: “Lo stato è il divino nel mondo”. Giuseppe Dossetti nel famoso discorso sullo Stato del 1951 teorizzò che è lo stato che “fa la società, traendo il corpo sociale dall’informe”. Lo Stato ha una funzione di “reformatio” del corpo sociale. Concezioni per niente affatto distanti dal comunismo e dalla socialdemocrazia, al netto dell’ateismo, che, certo, nel ’51 manteneva una distanza. Lo schema dossettiano è rimasto come dogma profondo, ha contribuito ad una radicalizzazione della sinistra e, da ultimo, del Pd, e “rappresenta forse la tendenza intellettuale più influente del cattolicesimo politico italiano”. Ed è perciò l’avversario più prossimo del cattolicesimo liberale. Secondo Armillei, il “dossettismo conservatore” è entrato a far parte di quello che viene definito “il triangolo di ferro della tradizione riformista e comunista italiana”. I suoi tre lati: il legame tra forma di governo parlamentare e partiti burocratici di massa; la concezione della legge elettorale come una sovrastruttura della dinamica politica; il sospetto nei confronti del governo del leader – con o senza partito – fulcro della democrazia del pubblico. Così che “qualcuno potrebbe maliziosamente tentare di rintracciare nascosti fili rossi tra dossettismo, sinistrismo azionista e grillismo”, uniti nella difesa dello stato istituzionale di cose presente.

Il quarto bastione è “il lavorismo”, il lavoro come ideologia, sia nella versione comunista sia in quella socialdemocratica, residuo ideologico non filtrato del “ruolo nazionale della classe operaia”. Eppure, osserva Armillei, non sembra trovare alcun ancoraggio né nella dottrina sociale della Chiesa, né nella dinamica delle classi e dei ceti sociali, né nel comportamento politico degli italiani. Il PD era nato nella convinzione di poter fare a meno di quel dogma. Ma è progressivamente tornato indietro proprio su questo punto.

Dei tre nuclei tematici, ricordati all’inizio, si è scelto qui solo il primo, per evidenti ragioni di spazio.

Ricordiamo qui solo la questione Ucraina, per mettere in evidenza la singolare lucidità di Armillei, quando nel 2014 ha affrontato la questione, all’indomani dell’annessione illegale della Crimea e dell’inizio della guerra civile, fomentata dai Russi, nel Donbass.

Dopo aver condiviso con “L’Economist” l’opinione che occorra “far capire a Putin che l’Occidente non é disposto a tollerare arretramenti sul fronte della democrazia e delle libertà individuali… e farglielo capire oggi (2014, NdR) anche allo scopo di evitare tensioni molto più pericolose domani” e dopo aver condiviso il giudizio, secondo cui “Putin non si muove dentro un quadro di realistico mantenimento dello status quo: opera al contrario per un suo mutamento…”, Giorgio Armillei critica la posizione attendista e “andreottiana” di Federica Mogherini, all’epoca Alta rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza: “… una lunga sequenza di «non ci sono buoni e cattivi», ma solo situazioni complesse, nelle quali cercare l’interesse comune…”. Di questo irenismo della complessità, scettico e cinico, continua a grondare parte della società italiana e del mondo politico.

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