di Pasquale Pasquino
Per capire le difficoltà dinanzi alle quali si trova oggi la Francia di fronte al problema della scelta di un primo ministro in una Assemblée Nationale, decisamente priva di una maggioranza assoluta può essere di aiuto ricordare che per la prima volta il suo sistema politico si trova diviso, al seguito delle elezioni del giugno scorso – come l’Italia dopo quelle del 2013 e del 2018 –, in tre componenti, nessuna delle quali ha un numero sufficiente di rappresentanti eletti per governare da sola il paese.
Se il trasformismo della classe politica italiana, oltre all’abitudine senza vere eccezioni ai governi di coalizione, aveva in qualche modo permesso la formazione di diverse possibili maggioranze, l’assenza della cultura del compromesso fra famiglie politiche diverse, che ha caratterizzato la vita della 5a Repubblica, rende oggi particolarmente difficile la costituzione di un esecutivo.
Finora, infatti, il Presidente della Repubblica o il primo ministro (in caso di coabitazione – quando cioè la maggioranza dell’Assemblea risultava diversa da quella che aveva scelto il Presidente) disponevano, con rarissime e marginali eccezioni, di una maggioranza che consentiva loro il governo del paese.
Oggi i tre blocchi dell’organo legislativo: la destra nazionalista di Le Pen, il centro di Macron e la composita coalizione di sinistra, che include peraltro forze socialiste moderate e l’estrema sinistra di Mélenchon, sembrano escludere ogni possibile compromesso in vista della formazione di un nuovo governo. In realtà già nel corso del breve precedente mandato elettorale (2022-2024), il centro marconista non godeva di una maggioranza assoluta, ma era comunque il primo gruppo politico.
Oggi esso è solo il secondo scavalcato dall’alleanza delle varie anime della sinistra. Nel corso delle consultazioni che il Presidente della Repubblica è stato costretto ad avviare – normale da noi ma senza precedenti in Francia – il Nuovo Fronte Popolare, il nome della coalizione delle sinistre, ha rivendicato la nomina al posto di premier di Lucie Castets, una alta funzionaria dello stato poco nota al pubblico e alle stesse forze politiche.
Questa peraltro potrebbe governare solo se vi fosse la disponibilità delle forze moderate di centro di sostenere le politiche del NFP (il quale necessiterebbe del voto favorevole di circa un centinaio di parlamentari esterni alla sinistra).
Ma le forze politiche di centro e ancor più quelle del limitato gruppo parlamentare della destra pro-europea si sono dichiarate ostili ad una tale prospettiva. Macron ha deciso di riprendere martedì 27 un nuovo breve giro di consultazioni prima di nominare un potenziale primo ministro, come gli compete in base alla costituzione.
Si osservi che la persona nominata non ha bisogno di un voto di fiducia dell’Assemblea, che però può sempre sfiduciare l’esecutivo – perché la costituzione del 1958 ha conservato una base parlamentare, nonostante la decisione referendaria del 1962 che ha introdotto l’elezione popolare del Presidente della Repubblica. Macron ha in teoria l’opzione di nominare Castets a Matignon (l’equivalente del nostro Palazzo Chigi), in attesa di una sua destituzione da parte dell’Assemblea, e procedere poi alla nomina di un nuovo primo ministro.
Ma pare che non sia intenzionato a farlo, perché la Francia non può squalificarsi nei confronti delle istituzioni europee alle quali Parigi deve presentare il bilancio dello stato per il prossimo anno. È possibile, in alternativa, che nomini un candidato che proviene dalla sinistra moderata o senza un forte profilo politico che potrebbe essere accettato dalla destra pro-europea e anche spaccare la sinistra isolando i mélenchonistes, che manterrebbero una opposizione dura, mentre le componenti più moderate potrebbero astenersi dal fare cadere, come anche i deputati lepenisti, un governo in certo senso provvisorio.
Questo potrebbe governare con un basso profilo fino alle prossime elezioni, che non possono essere convocate (a norma di costituzione) prima di un anno dalle ultime del giugno scorso. Di qui a lì non si può escludere un mutamento della legge elettorale che introdurrebbe una dose massiccia di proporzionale, che avrebbe fra l’altro la conseguenza di impedire la vittoria del partito di Le Pen nell’ Assemblée Nationale, come quella, rebus sic stantibus, di qualsiasi altro dei tre gruppi politici.
A ragione Gaetano Quagliariello, su il Giornale del 25 agosto, ha osservato una tale scelta avrebbe un forte impatto sulla struttura della costituzione indebolendo decisamente il ruolo del Presidente, rendendolo assai simile a quello svolto negli ultimi anni da Napolitano e poi da Mattarella (i colleghi di Oltralpe hanno parlato per l’Italia di “regime parlamentare con correttivo presidenziale”).
Ma a meno di pensare che la situazione di tripartizione attuale sia solo provvisoria e che il centro scompaia, il sistema politico francese dovrà apprendere, per sopravvivere, la virtù dei compromessi probabilmente intorno al centro dello spettro politico, isolando le ali estreme.
Le scelte dei prossimi giorni e delle prossime settimane mostreranno se la Francia è in grado di modificare il suo regime o se si incaglia fra gli scogli di un radicalismo senza prospettive, che non siano quella della vittoria del nazionalismo lepenista – ciò che il corpo elettorale e le forze politiche sono finora stati in grado di evitare.
Pasquale Pasquino, nato a Napoli nel 1948, è Director of Research al French National Center for Scientific Research (CNRS) nonché docente di Politics and Law alla New York University. Dopo gli studi di filologia classica, filosofia e scienze politiche ha pubblicato ricerche sulla storia delle idee relative allo Stato e alle costituzioni. In anni recenti la sua ricerca si è concentrata sulla giustizia costituzionale in una prospettiva costituzionale. In passato ha lavorato presso il Max Planck Institute di Göttingen, il Collège de France e il King’s College di Cambridge.