di Tomaso Greco
Chiusi in casa ascoltiamo i bollettini dell’epidemia e attendiamo il ritorno alla normalità. È un atteggiamento naturale, e probabilmente è più che naturale la voglia di decomprimere finalmente la propria socialità, di riprendere a pieno ritmo le attività economiche e di tornare alle proprie routine.
Ma per la politica il coronavirus non può essere una sospensione, una sosta lunga e forzata tra le proprie attività ordinarie, una pace olimpica tra le amministrative in Emilia-Romagna e l’ormai prossimo voto a Milano.
In sintesi se alla fine dell’allarme la vita delle persone tornerà presumibilmente alla normalità, è auspicabile che la politica e le istituzioni non tornino affatto a gennaio 2020.
Mi spiego. Finora la globalizzazione ci aveva messo di fronte a sfide e pericoli di varia natura, anche gravi, ma contenibili e affrontabili. Così era stato l’11 settembre, la prima sars, la crisi economica del 2008. Solo per citarne alcune.
Aveva creato l’illusione di poter abbattere le frontiere per le opportunità, ma di tenerle e di addirittura di rafforzarle per le minacce, anche qualora fossero effetti collaterali della globalizzazione stessa.
In questo il Coronavirus cambia il paradigma, ci mette di fronte a un prima e a un dopo.
In primo luogo dimostra l’inefficacia della frontiera e la sua presidiabilità solo a livello retorico. In altri termini rende velleitario qualsiasi sovranismo.
In secondo luogo dimostra l’inadeguatezza strutturale dei soggetti che perseguono l’interesse pubblico: le istituzioni nazionali sono travolte e la BCE con un piano straordinario da 750 miliardi (non un organismo squisitamente politico) ha fatto di più per la costruzione dell’Europa negli ultimi giorni che trent’anni di dibattito altalenante, dove agli slanci sono sempre seguite brusche frenate quando non addirittura retromarce.
Terzo aspetto, dimostra l’inadeguatezza degli attuali partiti. Pensati come attori della politica nazionale, si trovano scavalcati da sfide globali che richiedono una governance almeno continentale. Che per restare democratica ha bisogno di un dibattito politico continentale e di conseguenza di partiti continentali.
Quando sarà finita, mi auguro si faccia tesoro di questa dolorosa esperienza, non per una ripartenza, ma per una nuova partenza.
Editore e co-fondatore di bookabook, casa editrice indipendente, e co-fondatore di Lifenotes. Laureato in Giurisprudenza, è dottore di ricerca in Filosofia e Sociologia del Diritto. Ha insegnato Sociologia della PA e Sociologia del Diritto all’Università degli Studi dell’Insubria e ha collaborato con diversi altri atenei. Ha pubblicato saggi per Giuffrè, FrancoAngeli e IGI Global. Oggi continua a occuparsi di innovazione culturale, in Italia e all’Estero, da ultimo all’Innovation Summit della Fiera del Libro di Francoforte e alla Yale School of Management, con l’idea che serva più innovazione nella cultura, ma soprattutto molta più cultura nell’innovazione.