di Stefano Ceccanti
Relazione al Convegno Bachelet del 10 febbraio 2024
1- La pluralità dei centri
1.1- L’apertura sovranazionale: Alleanza Atlantica, Comunità Europee, Onu
Sulla base della Costituzione del 1948 e in particolare del suo articolo 11 il tema evoca anzitutto, come primo punto, una pluralità basata su una parziale condivisione della sovranità, a cominciare dalle due scelte complementari e equiordinate compiute sotto la leadership degasperiana nella prima legislatura repubblicana, quella dell’Alleanza Atlantica e quella delle Comunità Europee, divenute progressivamente patrimonio comune delle forze politiche.
Come ricorda Paolo Trionfini nell’Introduzione nell’Introduzione agli scritti civili di Vittorio Bachelet, per Bachelet la stabilizzazione e la crescita della nostra democrazia era indissociabile da quelle due scelte, appunto complementari ed equiordinate.
Il superamento della sovranità assoluta degli Stati era del resto al cuore della Dichiarazione dei Diritti elaborata da Emmanuel Mounier e dal Gruppo di Esprit nel 1944 (si veda in particolare l’articolo 36) che tanto influì sulle Costituzioni francese ed italiana dell’immediato dopoguerra. Dell’aperura sovranazionale faceva altresì parte l’adesione dell’Italia all’Onu, alla cui Dichiarazione universale contribuì in modo decisivo Jacques Maritain in nome di “un comune pensiero pratico” al di là delle divergenze dei fondamenti.
Non sfugga però il diverso rendimento di queste condivisioni di sovranità.
Le istituzioni europee e l’Alleanza Atlantica hanno alla base, pur tra contraddizioni, un medesimo orientamento tra Paesi democratici rivelatosi espansivo con le adesioni dei Paesi liberatisi dalle dittature di stampo fascista e dall’oppressione sovietica e il loro bilancio è quindi ampiamente positivo, come dimostrano le crescenti richieste di allargamento dell’Ue e le recenti adesioni della Svezia e della Finlandia alla Nato.
Invece il sistema basato sull’Onu prima è stato congelato dalla Guerra Fredda e poi è stato sostanzialmente paralizzato dalla persistente eterogeneità interna tra democrazie e autocrazie, che ne rende difficile una rifondazione, nonostante le grandi speranze suscitate dalla Terza Ondata democratica avviata a partire dalla Rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974, cinquant’anni tra poche settimane, e alimentata in vari Paesi dai testi del Concilio Vaticano sull’opzione preferenziale per la democrazia (Gaudium et Spes) e sul pieno riconoscimento della libertà religiosa (Dignitatis Humanae). E il nostro pensiero va alle personalità della famiglia dell’Azione Cattolica che hanno pesato nelle transizioni democratiche riuscite, da Maria de Lourdes Pintasilgo in Spagna, a Joaquin Ruiz-Gimenez e Gregorio Peces-Barba in Spagna a Tadeusz Mazowiecki in Polonia.
Per questo appare necessario un sempre più stretto collegamento internazionale tra le democrazie, sia a fini difensivi che propulsivi, evitando che prevalgano dall’una o dall’altra sponda dell’Atlantico, posizioni isolazioniste che farebbero il gioco dei regimi autocratici. Come scriveva Emmanuel Mounier ne ”I cristiani e la pace” non è possibile coltivare posizioni irenistiche e astrattamente neutraliste giacché riemergono costantemente nella storia umana “potenze oscure dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato”.
1.2- L’arricchimento dei centri di potere interni: giustizia costituzionali e Regioni
Il secondo punto è l’arricchimento della pluralità dei centri di potere che si generalizza con le Costituzioni del secondo dopoguerra e che vede due aspetti: anzitutto sul piano delle garanzie l’espansione del sistema di giustizia costituzionale indipendente, prospettata anch’essa dalla Dichiarazione di Esprit del 1944 (art. 42), che paradossalmente sul momento non attecchì in Francia (nessuno è profeta in Patria), ma che ispirò i Costituenti italiani; quindi sul piano della separazione verticale dei poteri la nascita di enti intermedi come le Regioni potenzialmente capaci, per le loro dimensioni di scala, di costituire, a differenza degli enti locali tradizionali, pur fondamentali, un efficace antidoto contro il centralismo e un laboratorio per sperimentare pragmaticamente nuove soluzioni ai problemi da estendere poi eventualmente, in caso di loro fecondità, al resto del Paese. E qui è evidente la matrice sturziana ma anche quella maritainiana del periodo americano con la critica degli Stati accentrati europei e l’elogio dell’equilibrio tra Stato federale e stati federati che permetteva di valorizzare al tempo stesso unità e differenze. Maritain peraltro ci ricorda nelle sue “Riflessioni sull’America” che gli statunitensi aborriscono per il livello centrale lo stesso termine Stato, pur avendo plebiscitato il New Deal di Roosevelt e l’espansione del Governo federale.
Fin qui le riflessioni sulla pluralità dei centri di potere e sulla positività della loro crescita nel secondo dopoguerra sia sul piano sovranazionale sia su quello interno.
2- L’equilibrio tra i centri di potere
2.1- La necessità di privilegiare la spinta federale rispetto allo squilibrio spostato sulla dinamica confederale
Quali riflessioni si possono poi proporre sull’altro tema proposto dal titolo, quello dell’equilibrio tra i medesimi centri?
Esso può essere anzitutto affrontato sul piano dell’Unione europea: l’allargamento necessario ai Paesi approdati alla democrazia dopo il 1974 e dopo il 1989 non ha realizzato un equilibrio, ma uno squilibrio. L’anima confederale-intergovernativa basata soprattutto sul principio di unanimità ha squilibrato le istituzioni a danno del principio federale, delle istituzioni che lo rappresentano, dal Parlamento alla Commissione, nonostante gli sforzi che si sono talora affermati come con lo strumento del Next Generation Ue perseguito con forza, tra gli altri, da David Sassoli come presidente del Parlamento. Anche gli ulteriori allargamenti, se realizzati a impianto invariato, rischiano ulteriormente di indebolire la spinta federale. Per questo è importante non solo che l’attuale maggioranza europeista del Parlamento venga confermata ma che essa si ponga obiettivi più coraggiosi.
2.2- Le sfide del regionalismo cooperativo e del rafforzamento equilibrato del Governo
Posto l’arricchimento dei centri di potere, il modo concreto con cui lo Seconda Parte della Costituzione ha congegnato i loro rapporti non può dirsi ispirato all’equilibrio, ma a un deliberato e motivato squilibrio in senso assembleare e così pure la lentezza della sua attuazione. Lo segnala Vittorio Bachelet su “Coscienza” dell’agosto-settembre 1954 rilevando tutto lo scarto tra l’intesa alta stabilita sulla Prima parte del testo, definita “innovatrice e audace” e gli eccessi di poteri di veto della Seconda, “inadeguata..alle funzioni nuove dello Stato”.
Le ragioni di fondo ce le spiegano Dossetti e Lazzati in un’intervista realizzata da Scoppola ed Elia nel 1984 e pubblicata più tardi dal Mulino: nel clima di lacerazione della Guerra Fredda ognuno temeva il 18 aprile dell’altro, il rischio di forzature dell’avversario, pur avendo avuto in comune l’unità nella Resistenza. Da lì la scelta di un Governo debole e, poi, l’attuazione lenta e prudente del regionalismo.
Per queste ragioni soprattutto dopo il 1989 si è aperta una spinta a revisioni su entrambi questi terreni.
Sul regionalismo, però, la Riforma del Titolo Quinto del 2001 non ha realizzato un equilibrio efficace perché un sistema di regionalismo cooperativo non può funzionare in modo razionale senza una sede parlamentare di cooperazione, senza un Senato delle autonomie. In assenza di tale sede i conflitti si moltiplicano e si spostano sulla Corte costituzionale. Per questa ragione fondamentale pensare di andare oltre attuando l’autonomia differenziata, pur prevista dal testo della Costituzione, senza aver prima risolto questo nodo, può solo creare più problemi che soluzioni. Il problema irrisolto del Titolo Quinto non è ciò che c’è, ma ciò che manca: il Senato regionale.
Sulla forma di governo in assenza dell’adozione degli strumenti tipici delle democrazie parlamentari efficienti (fiducia al solo Primo Ministro da parte di un’unica Assemblea parlamentare, potere di chiedere la revoca oltre che la nomina dei ministri, disincentivi per approvare la sfiducia, ruolo significativo del Primo Ministro nel proporre elezioni anticipate come deterrente alle crisi, corsia preferenziale in Parlamento per i disegni di legge del Governo che ne attuino il programma) l’esigenza di rafforzamento si è imposta con strumenti del tutto anomali (eccesso di decreti-legge, uso abnorme della questione di fiducia su maxi-emendamenti, monocameralismo alternato). Se si vogliono rimuovere le anomalie senza produrre danni nel sistema occorre simultaneamente le fisiologie.
Più in generale si contrappongono due impostazioni: una direttista che ritiene che questo rafforzamento imponga un legame stringente tra elettori e scelta del Governo, e una anti-direttista che teme che ciò porto a uno squilibrio opposto a quello originario. Entrambe le tesi sono portatrici di una verità parziale. La prima ha il suo punto di forza sul sistema elettorale, rifacendosi alla lezione di Roberto Ruffilli secondo il quale le alleanze andavano formalizzate davanti agli elettori prima del voto con appositi incentivi in modo che il cittadino col suo voto potesse essere arbitro della scelta del Governo. La seconda ha il suo punto di forza nei testi delle altre Costituzioni delle forme parlamentari efficienti, dove è inserita una ragionevole dose di flessibilità in corso di legislatura. Ci si può ispirare alla medesima logica che ha portato a rinnovare sistemi elettorali e forme di governo di Comuni e Regioni, ma non si possono trasporre meccanicamente le norme sulla forma di governo. Se si riuscirà a comprendere da parte di ciascuno la verità parziale dell’altro sarebbe anche possibile, dopo le elezioni europee, varare una riforma condivisa risparmiandoci un referendum lacerante.
Un nuovo equilibrio condiviso capace di aggiornare le istituzioni consentirebbe di favorire una partecipazione responsabile dal basso per rivitalizzarle, mentre scontri propagandistici allontanerebbero un’ulteriore parte di cittadini, infastiditi da sbagliati eccessi di partigianeria
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.