di Giovanni Cominelli
Non sembra tempo di ottimismi né per quanto riguarda la situazione internazionale né per quanto riguarda quella interna. Provetti aruspici si affannano professionalmente a scrutare le viscere del pianeta e quelle dell’Italia per individuarne i destini.
Che cosa vedono/vediamo all’ingrosso? Xi Jin Ping annuncia che Taiwan sarà cinese. Putin vuole annettersi l’intera Ucraina. Trump rivuole la Casa Bianca. L’Iran invita a buttare a mare Israele e minaccia il Mar Rosso e Gibilterra…
Quanto all’Italia, il catalogo dei malanni prevedibili è lungo. Due fatti sono immediati e constatabili: continua ad aumentare il debito pubblico quale autobiografia più autentica del Paese; continua la fuga degli elettori dal voto.
Tuttavia, ciò che preoccupa gli Italiani non è la condizione del Paese, ma la propria. Le statistiche sempre aggiornate di Nando Pagnoncelli segnalano un’impennata delle preoccupazioni relative a sanità, immigrazione, sicurezza.
Per descrivere questo stato d’animo degli Italiani gli analisti utilizzano immagini quali “sonnambulismo”, “sfinimento emotivo”, “policrisi”, “permacrisis”, “passaggio d’epoca” … E se si chiede a questi Italiani che “si sentono circondati” di prendere posizione, di schierarsi – ovviamente solo con il pensiero! – rispetto agli atroci conflitti in corso al confine ucraino o a quello israeliano, la risposta prevalente è il non-prendere posizione, il neutralismo.
Sull’Ucraina, citando Nando Pagnoncelli, il 51% “non sta da nessuna delle due parti”; su Israele, il 6% sta con Israele, il 4% su Hamas, il 75% tra un “non so” e la richiesta di esercitare un ruolo di mediazione. Il trend prevalente è quello dal ritiro dal mondo.
La Repubblica degli Italiani è una Patria?
Pertanto, di quale Repubblica parla il Presidente della Repubblica, ad ogni fine d’anno, quando fa appello alla responsabilità, alla solidarietà, all’andare incontro insieme alle sfide del mondo? Parla ad un volgo disperso nei propri affanni, incapace di sollevare lo sguardo sul proprio orizzonte collettivo e su quello del pianeta. Il Presidente c’è, la Repubblica è solo quella dell’ultimo dell’anno.
Dovrebbe ben essere questa la “Casa comune”, dentro la quale tutti ci sentiamo protetti, al cospetto del mondo frammentato e rischioso che viene avanti. Una Repubblica quale frutto finale e risultante dell’intera nostra storia, delle nostre tragedie, dei nostri caduti nelle guerre di indipendenza, nelle guerre coloniali e imperialistiche, nella Resistenza, nel terrorismo e nelle mafie.
Scriviamo Repubblica, ma dobbiamo dire “Patria”, più propriamente. È la nostra storia dal 17 marzo 1861. Ora, non pare che questa “Patria” esista nella testa e nell’esperienza degli Italiani. E non c’è neppure nella testa delle loro classi dirigenti politiche, e non solo. Sì, ci sono lo Stato-amministrazione, il Parlamento, il Governo, la Magistratura. C’è lo scheletro istituzionale e amministrativo della Repubblica. Mancano la carne e il sangue.
I discorsi di Mattarella, eroicamente ostinati e protesi verso una pedagogia della Repubblica, di cui destinatari sono i cittadini e i loro delegati in Parlamento, sono ogni volta oggetto di applausi, di consensi, di alati commenti, ma anche di discrete e ripetute tiratine di giacca, ovviamente a svantaggio degli avversari politici, anzi dei nemici. Ma, soprattutto, non modificano né i comportamenti dei cittadini né – e questo ben verificabile – il linguaggio e i comportamenti dei partiti e dei rappresentanti in Parlamento.
Forse i singoli individui pensano che un individuo possa più facilmente dare del TU alla storia del mondo globale e ne possa ricevere risposte comprensibili, non necessariamente soddisfacenti? Oppure pensano di costruire un’interlocuzione collettiva, fondata sulla storia comune, sulle relazioni di prossimità tra persone, gruppi e comunità.
Un bel po’ di Italiani ha scelto una terza via: quella di chiudersi nel proprio mondo privato, di consumare il presente che viene avanti, di non pagare le tasse, di assentarsi dalla vita pubblica, dall’impegno civico, dalla politica e dalle urne elettorali: oltre il 40%, al momento, da quelle italiane e previsto oltre il 50% da quelle europee. È l’illusione di salvarsi da soli.
La guerra civile in nome della Repubblica e della Patria
In realtà, da qualche decennio si parla di “Patria”, almeno dall’ingresso nel vocabolario politico delle espressioni quali “Forza Italia”, “Alleanza nazionale”, “Sovranità nazionale”, “Italiani”, “Fratelli d’Italia”. Berlusconi, Fini e, più tardi, Salvini e Meloni ne hanno fatto largo uso. Ma anche il Presidente Ciampi aveva avviato una rivoluzione del linguaggio, all’indomani della caduta dei blocchi.
Cercava di definire un ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, ben piantato nella nostra storia, che era ed è incominciata dal Risorgimento, non dalla Resistenza.
Se la Sinistra post-comunista e post-democristiana fu tiepida di fronte alla sollecitazione di Ciampi, la Destra invece afferrò il tema e lo usò come strumento nella battaglia per l’egemonia. La sinistra fu rappresentata come prona verso i dogmi della globalizzazione e verso l’Unione europea concepita come “longa manus” delle élites tecnocratiche globali.
Il sovranismo ha finito, in seguito, per convergere con il populismo, che attaccava le vecchie élites della sinistra partitocratica da un altro lato: quello dell’obsolescenza dei meccanismi dell’intermediazione democratica, nel nome della democrazia diretta.
In ambedue i discorsi c’era un frammento di verità. Era vero che la sinistra aveva sempre diffidato della “Patria”, pur avendo versato molto sangue nel 1943-45 – forse perché ne aveva in mente un’altra, che non era né fascista né democratico-occidentale – ed era vero che il meccanismo partitocratico della mediazione era ormai saltato.
Solo che la Destra ha finito per usare e continua ad usare “la Patria” come clava contro gli avversari politici, trasformati in nemici della Patria, perché sarebbero, in realtà, rimasti “comunisti”. I quali, a loro volta, hanno incominciato ad usare all’impazzata la categoria di “Repubblica antifascista”, chiamando in causa la Resistenza e temendo una Patria sempre a rischio di fascismo.
Così pezzi di storia della Patria sono stati e sono tuttora usati come le catapulte per lanciare i proiettili di un reciproco assedio, più radicale e ultimativo di quello che Moro aveva denunciato quale condizione alla lunga insostenibile per il Paese. Se Moro voleva approdare ad un riconoscimento reciproco, l’assedio di oggi continua molto crudamente come una quotidiana guerra civile, nel corso della quale nessuno fa prigionieri.
Fortunatamente solo a livello della propaganda, cui siamo fatalmente esposti, a nostre spese, ogni sera su tutti e tre i TG, nel corso dei quali gli avversari si insultano reciprocamente quali anti patrioti, antinazionali, rovina dell’Italia. Questa propaganda tossica si sta trasformando in una pedagogia della guerra civile, della quale le élites politiche si pongono cinicamente alla guida.
Non è armata, per ora. È insulto, disprezzo, delegittimazione, mancato riconoscimento dell’altro. Sta formando uno spirito pubblico fatto di odio e di disimpegno. Esso condiziona, in primo luogo, i nostri ragazzi e gli immigrati che intendano integrarsi. Come potrebbero appassionarsi alla politica? Pare difficile che un’Italia in queste condizioni spirituali e morali possa andare ad affrontare a viso aperto le sfide del 2024.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.