di Giovanni Cominelli
“L’Aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola” è il titolo del recente libro di Ernesto Galli della Loggia dedicato alla crisi della Scuola italiana. Provocazioni, malizie, sberleffi, giudizi personali sprezzanti rendono la lettura divertentemente emotiva, ma rischiano di sviare lo sguardo dalla sostanza. Occorre dunque esercitare un paziente discernimento.
Del tutto condivisibile è il giudizio sulla condizione della scuola italiana. Benché la retorica corrente la proclami “la migliore del mondo”, alcuni dati antichi e recenti, tutti convergenti, smentiscono questa autorappresentazione, per lo più promossa da opinionisti che non frequentano più da tempo un ambiente scolastico o dai “riformisti del cacciavite”, secondo l’intramontabile categoria inventata dal Ministro Beppe Fioroni. Le statistiche riportate da vari organismi nazionali e internazionali relative a dispersione, analfabetismo funzionale, NEET, conoscenza della Lingua prima, della Storia, delle Scienze, della Matematica lasciano pochi dubbi sui cattivi risultati della scuola italiana.
Così, lungo i decenni si è innalzata sviluppata una lunga accumulazione di ignoranza, di incompetenza orgogliosa di sé, di disprezzo per i saperi. Essa ha generato il declino culturale e politico del Paese, secondo una corrente di circolarità causale di responsabilità che corre tra Scuola, Università, Società civile, Politica. L’istituzione scolastica è diventata una grande struttura dissipativa. Dire questa elementare verità ti espone a rimbrotti e ad accuse di disfattismo, peggio che dopo Caporetto. Né la può dire la politica, perché innervosisce gli insegnanti, di cui perde subitaneamente i voti. Secondo l’Istituto Cattaneo nelle elezioni politiche delle 2018 il 41% degli insegnanti ha votato il M5S.
Se la pars critico-destruens del libro funziona, latitano tuttavia le proposte sul che fare. Sulla scia di Allan Bloom, di Martha Nussbaum, di Maryanne Wolf e di molti altri, anglosassoni ed europei, Ernesto Galli della Loggia propone il ritorno all’antica paideia classica quale fondamento di quella nuova. Se la scuola è quel luogo dove i nostri figli debbono venire “ominizzati”, cioè sollevati dalla loro condizione selvatica di natura verso la storia e la civiltà del tempo storico presente, se la scuola è quel trampolino da cui ci si tuffa nella storia del mondo, se la scuola è una parte essenziale del percorso della costruzione del Sé, se l’eredità classica è la condizione per la compiutezza dell’uomo e del cittadino moderni… allora dobbiamo reintrodurre massicciamente nell’insegnamento l’intera cultura classica greco-romano-cristiana. Non si potrebbe essere più d’accordo! Ma qui appaiono alcune incongruenze e incompletezze nel suo discorso.
Il vitello d’oro del Liceo classico
La prima. Se la paideia classica è una necessità esistenziale per tutti – un diritto/dovere di tutti – perché ancora oggi questo accesso è gentilianamente garantito solo dal Liceo classico e da quello Scientifico con il Latino, dunque ad una minoranza dei ragazzi? Perché si pretende che la conoscenza del Greco e del Latino ne sia il presupposto. Il Greco e il Latino funzionano come mannaie. La pensavano così, d’altronde, tanto Togliatti quanto Concetto Marchesi, quando si opposero, nel dibattito del V Congresso del PCI del 1945-1946, a Elio Vittorini, che rivendicava la classicità per tutti, quale che potesse essere poi il destino professionale di ciascuno. Ma qui domina il vitello d’oro del Liceo classico, di cui Scotto di Luzio – discepolo di Ernesto Galli della Loggia e unico citato nel libro – si è fatto storico e aedo. Eppure l’uovo di Colombo ci sarebbe: far accedere ai sacri testi attraverso buone traduzioni. E il Liceo classico? Potrebbe agevolmente trasformarsi in un Liceo professionale filologico-linguistico, destinato a riprodurre la classe dei traduttori, dei filologi e degli ermeneuti.
En passant, si può anche notare che la distinzione/separazione che Ernesto Galli della Loggia istituisce tra istruzione e educazione – la prima fornirebbe i saperi, la seconda tenterebbe di piegare totalitariamente le giovani menti a obbedienze “totalitarie” o “democratiche” – e che manovra quale chiave interpretativa della storia della scuola non regge proprio nel caso della paideia classica. La quale è un intreccio di saperi e di valori, di conoscenze e di etica pubblica e privata. Tampoco la separazione vale oggi. Non solo perché il sapere, se non è ridotto a nozione, cambia lo sguardo sul mondo e dunque anche i comportamenti e il modo di vivere, ma anche perché gli insegnanti nelle scuole sono fattualmente “costretti” a fare gli educatori dalla fuga crescente dei genitori, quanto più si sale lungo la scala delle età.
E GDL non ha proposte sul da farsi
Ma, incongruenze a parte, “l’Aula vuota” di Ernesto Galli della Loggia è vuota di proposte alternative. Se non vuole tornare tornare al classismo di Giovanni Gentile, correttamente definito un liberal-conservatore, non fascista, se non vuole tornare al populismo di don Milani, se rifiuta il costruttivismo pedagogico del ‘900 e la pedagogia progressista – cfr. Kieran Egan: “Getting it wrong from the beginning”, in cui si argomenta una critica radicale alla la nostra eredità progressista da Spencer, Dewey e Jean Piaget – se aborre l’impianto ideologico rousseauiano tutto Natura, niente Cultura e Tradizione, se il modello di sistema nazionale di educazione è fallito, a causa della frattura rousseauiana degli anni’60 e della caduta conseguente del principio di autorità, quali le linee essenziali di un nuovo modello, di “un’altra riforma”?
Troppo facile, infatti, contestare ironicamente “la riformite” che avrebbe assalito la Scuola italiana (l’«autonomia», il «curricolo», il «portfolio delle competenze», la «cittadinanza», il «learning by doing», il «Pof», il «progetto», l’«inclusione» ecc. ecc.)…
Intanto, occorrerebbe notare che il modello, che il Conte Casati andò personalmente a proporre a Vittorio Emanuele II nel fatale 1859, non è affatto quello di Rousseau, ma quello fondato sull’intreccio prussiano, giacobino e napoleonico di Ragione e Stato, che ha generato il sistema educativo europeo continentale. E’ un mosaico di quattro tessere, connesse a sistema: la Tavola dei saperi, l’Ordinamento, l’Amministrazione – da cui quella della Didattica – il Personale. “A sistema”: cioè le pretese del riformismo contingente e puntiforme dei governi sono a priori destinate al fallimento.
I dolori dell’insegnamento/apprendimento
Avendo in un paio di libercoli diffusamente trattato di questi quattro pilastri e delle loro connessioni, mi limito qui ad accennare solo a due notazioni. La prima riguarda l’attuale organizzazione della didattica, conseguente a contratti sindacali, che prevedono la distribuzione rigida e immodificabile dell’orario di insegnamento annuale in 18 o 24 ore settimanali, su cinque giorni. Come si fa a insegnare la Lingua, a far riassumere testi per iscritto, a leggerli, a far scrivere e parlare dentro una tale parcellizzazione proto-tayloristica? Impossibile. Infatti, la Lingua si sta perdendo. Ma è l’intera organizzazione quotidiana dell’insegnamento/apprendimento che diventa la prigione di una noia mortale dei ragazzi. Il sapere viene rifiutato. Diviene “inerte”, secondo l’espressione di Kieran Egan. Non è considerato un pezzo decisivo della costruzione della propria identità esistenziale. A scuola si incontrano solo “i pari”, non gli adulti educatori sapienti, non la Storia, non le Scienze, non la civiltà umana in tutto il suo drammatico spessore… La scuola non appartiene a questo mondo, è il regno di Peter Pan.
Quanto agli insegnanti, si sono trasformati da funzionari dell’assoluto in travet sindacalizzati, solipsisticamente chiusi nelle loro classi, persone senza consistenza morale e civile, inconsapevoli della propria funzione pubblica, assunti per concorsi a selezione avversa, illicenziabili, invalutabili, indifferenziati, pagati tutti allo stesso modo. Insomma: abbandonati a se stessi, premiati solo dalla proprio coscienza, quando ce l’hanno. Esiste, fortunatamente, una discreta minoranza di eroici, volenterosi, a vocazione forte. Ma gli altri? Colpa loro? Il fatto è che l’Istituzione/amministrazione così li selezione, li forgia, li piega, li vuole…
La Scuola è il prodotto di questa società civile, di questa scuola, di questa politica democratica e vile. Che altro c’è da aspettarsi da un Paese, la cui etica pubblica è il debito pubblico, cioè lo scarico sulle generazioni a venire della fatica di stare oggi nel mondo globale?
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.