di Roberto Romani
Da elettore del Partito Democratico, alla fine del mese scorso ho seguito la relazione della segretaria Elly Schlein alla Direzione del partito. L’accelerazione della storia imposta dal secondo mandato di Trump, ha detto Schlein, ci obbliga a “lanciare al paese una sfida culturale oltre che politica, una sfida che colpisca al cuore il sistema di valori del nazionalismo, una sfida che si sganci dalla cronaca e sia all’altezza della responsabilità storica che ci viene assegnata da questo tempo”. La segretaria si propone di rispondere a un bisogno di comprensione che mi pare diffuso, a fronte dei successi delle destre in Europa e della persistente instabilità geopolitica. Si può supporre che la “sfida” di Schlein assuma il Manifesto per il nuovo PD: Italia 2030, frutto dell’Assemblea costituente del 21 gennaio 2023, come punto di partenza. Nell’esporre il programma a lungo termine, il documento palesa le scelte culturali di fondo. In questo articolo, sostengo che l’impianto del Manifesto – e quindi la cultura ‘ufficiale’ del PD – non tiene nel giusto conto la complessità dei problemi e delle scelte.
Vi sono questioni politiche a cui sottostanno autentici dilemmi. Il più evidente, oggi, è l’immigrazione: scelgo i diritti umani universali, o le politiche nazionali di welfare? In economia, si tratta di bilanciare l’efficienza del mercato con la protezione dello stato. In geopolitica, il riarmo europeo sembra giustificato dalle circostanze, ma solleva varie ragionevoli obiezioni. Nel campo ambientale, il benessere della generazione presente non si accorda con quello delle generazioni future. I social media ci fanno riflettere sui limiti della libertà di espressione. Ancora: le quote per le minoranze nelle università o in politica penalizzano i meritevoli, o emancipano le vittime? Ciascuno di noi risolve questi e altri dilemmi sulla base dei propri interessi, dei propri valori, e delle sempre parziali informazioni di cui si dispone. Il punto essenziale, a mio avviso, è riconoscere l’effettiva problematicità di scelte del genere.
Schlein parla dei “paletti valoriali” che il PD impone. Il Manifesto dal canto suo acquisisce subito un tono di superiorità morale – altrimenti detta correttezza politica – e non lo abbandona più. La prassi del partito è fatta derivare, senza riserve o cautele, da “diritti” e “valori”. “Diritti” ricorre 37 volte nelle circa 6.600 parole del testo, mentre “salario” e “sindacati” figurano una volta sola ed “operai” e “reddito” mai. Naturalmente la sfera economica è considerata, ma sempre come mezzo alla realizzazione di diritti (alla libertà, alla dignità, all’inclusione sociale, e alla partecipazione politica).
Tanto Schlein che il Manifesto affermano che i diritti vanno realizzati tutti insieme, “simultaneamente”. Questo perché non vi sono contraddizioni bensì sinergie fra equità, crescita, e ambiente. L’impressione del lettore è che nessuna scelta sia davvero problematica – implichi cioè un dare e avere, un trade-off – una volta che si sono sposati i valori del partito. Si noti che alcuni dei dilemmi menzionati sopra sono rappresentabili come contrasti fra diritti legittimi; ma nessun contrasto è arduo nel Manifesto, in cui i diritti sono tanto onnicomprensivi quanto generici. La politica vi perde la propria connaturata tragicità, e il testo diventa un catalogo di buone intenzioni. L’opera di trasformazione evocata dal PD è poi “urgente”: la transizione energetica, la giustizia sociale, e la questione femminile non ammettono “ritardi e tentennamenti”. L’obiettivo finale, ossia il diritto che sintetizza tutti gli altri, è che ciascuno possa “creare autonomamente il proprio percorso di vita”. Sono evidenti, in questo appello all’“autodeterminazione”, gli echi della life politics promossa dal Labour di Blair, e da tempo accusata di impedire la mobilitazione di qualunque soggetto collettivo.
Un tipo di narrazione che manca nel Manifesto è proprio quella dell’identità. Non mi riferisco tanto alla richiesta di riconoscimento da parte delle minoranze – il documento accenna soltanto alla comunità LGBTQIA+ – quanto alla perdita di identità culturale delle maggioranze per effetto, in primo luogo, della crisi dei grandi partiti iniziata negli anni ottanta. Identità collettiva significa una condivisione di cultura, prima di tutto nazionale. Nessuna società può funzionare senza una cultura comune, per quanto minima; è lecito quindi domandarsi fin dove si estenda l’autodeterminazione degli individui secondo il PD. La questione di fondo, tutt’altro che nuova, è se tutti i sistemi morali siano da ritenersi ugualmente validi, oppure se alcuni siano preferibili agli altri (il caso della religione musulmana ricorre nel dibattito contemporaneo). Ma il Manifesto non si pone domande del genere. Gli unici soggetti collettivi del documento sono i giovani, le donne, e addirittura “le bambine e i bambini” – soggetti biologici piuttosto che culturali. I valori morali del PD sono evidentemente individuali, non comunitari. Si ha poi l’impressione che il valore più alto, quello che dà senso all’esistenza, sia la partecipazione alla lotta per i diritti – il valore che la politica avvera è la politica stessa.
La genericità del Manifesto autorizza tanto una prassi di sistematici compromessi, quanto il disegno di cambiare tutto e subito. Credo non sia un caso che il documento non prescriva ben specificate riforme, ma resti nel vago. “Riforma” non compare nel testo, mentre “trasformazione” figura 10 volte in vari contesti, e “cambiamento” e assimilabili 14 volte. Si cela qui, in questa ambiguità sull’obiettivo, una delle ragioni per cui i partiti a sinistra del PD sono regolarmente falliti. Una politica tutta in termini di valori e diritti non prevede di per sé limitazioni o ritardi, perché valori e diritti non sono negoziabili, né attuabili a rate. Il partito raccoglie così voti a sinistra, ma al prezzo di una rovinosa astrattezza di visione, fonte di impotenza e subalternità.
Il problema non è che il PD, come altri partiti socialdemocratici, abbia fatto dei diritti il nocciolo della propria piattaforma, ma che, primo, ne abbia fatto l’unico terreno su cui porre le questioni, e che, secondo, se ne serva per non compiere scelte difficili. Se i diritti nella versione del PD sono tanto astratti da parere una tattica evasiva, rimane uno spazio vuoto – che nel Manifesto è in parte riempito da lessico e concetti del cattolicesimo politico. Con l’eccezione della difesa della legge sull’aborto e di un riferimento al fine vita, il documento è in pieno accordo con l’insegnamento di Papa Francesco. Si intravede un radicalismo etico nutrito di cattolicesimo “personalista”, che indurrebbe un ritorno a quella politica palingenetica che proprio la strategia dei diritti umani era intesa a soppiantare.
Il Partito Democratico è l’unica forza di opposizione nel medio termine – i suoi destini riguardano tutti coloro che temono l’ondata europea della destra populista. Meritoriamente, Schlein vuole rifondare la cultura del partito in sintonia con le nuove sfide. Il Manifesto però non serve, come non è servito il documento precedente (2008), in cui si sposava la globalizzazione e il mercato. Il Manifesto riflette la domanda di protezione sociale successiva alla crisi finanziaria, ma l’autonomia dell’individuo come obiettivo ultimo viene ancora da lì, dagli anni 1990. Il problema maggiore, comunque, è che un approccio etico ha grandi limiti se non si misura con la pratica – conduce troppo facilmente a ritenere che chi non pensa come noi sia troppo ignorante per capire, o al soldo dei plutocrati. Un partito che sceglie, tuttavia, dovrebbe inevitabilmente tuffarsi nel mare inquinato dell’identitario, e quindi, culturalmente parlando, sporcarsi le mani. A mio avviso è necessario. Il mondo sta cambiando davvero, e con esso i partiti socialdemocratici europei.
Docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Teramo