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La sfida geopolitica sui minerali

Alessandro Maran giovedì 13 Marzo 2025
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di Alessandro Maran

I minerali essenziali – come litio, cadmio, nichel e simili, che possono essere utilizzati nell’elettronica di consumo ad alta tecnologia, nell’equipaggiamento militare e nelle infrastrutture per l’energia verde – stanno acquisendo importanza geopolitica, soprattutto mentre il mondo cerca di convertirsi a fonti di energia pulita.

Non è un caso che gli Stati Uniti stiano cercando di assicurarsi i diritti sui depositi ucraini di metalli essenziali per la produzione ad alta tecnologia. I minerali sembrano essere sul tavolo almeno da dicembre, quando Constant Méheut, Kim Barker e Maria Varenikova del New York Times hanno riferito che Kiev aveva ritardato la conclusione di un accordo sui minerali con gli Stati Uniti “con l’obiettivo di lasciare che Trump ne rivendicasse il merito dopo l’insediamento” (https://www.nytimes.com/…/europe/trump-ukraine-russia.html).
Sulla World Politics Review, Amanda Coakley ha scritto a febbraio che discutendo dei diritti minerari, Zelensky stava astutamente giocando sulla propensione di Trump alla conclusione di accordi nell’interesse materiale dell’America (https://www.worldpoliticsreview.com/ukraine-war-trump…/). Nell’accordo (i cui dettagli esatti non sono del tutto certi) Zelensky concederebbe agli Stati Uniti domani un certo accesso ai depositi minerari dell’Ucraina creando un fondo di investimento congiunto, in cambio del protrarsi del sostegno americano all’Ucraina. E proprio l’esitazione di Kiev a firmare avrebbe provocato la recente “battaglia verbale” tra Trump e Zelensky, come hanno riferito a febbraio Alan Cullison, Alexander Ward e James Marson del Wall Street Journal, ma le due parti da allora si sono “avvicinate” a un accordo finale (https://www.wsj.com/…/white-house-and-ukraine-close-in…).
The Economist ha sottolineato i vantaggi per l’Ucraina, scrivendo: “Sebbene l’accordo quadro sia solo abbozzato, l’Ucraina può ritenere di aver evitato uno scontro a mani nude” con Trump. “Oltretutto, la vera portata della sua ricchezza in risorse naturali è sconosciuta. La tecnologia moderna non è ancora stata utilizzata per valutare i suoi giacimenti minerari. Molti di essi sono in profondità, o in concentrazioni troppo basse per essere redditizie. E forse il 40% delle risorse di metalli si trova in territorio occupato dalla Russia. Né l’accordo quadro offre dettagli sulla lavorazione e la raffinazione, che aggiungeranno gran parte del valore. Eppure, accettando qualcosa, l’Ucraina ha offerto un risultato apprezzabile a Trump e ha guadagnato tempo. Nelle condizioni malconce del paese, questo conta molto” (https://www.economist.com/…/ukraine-has-fended-off…).
Anche il columnist del Washington Post, Marc A. Thiessen, considera il potenziale accordo sui minerali un duro colpo per la Russia: “Con questo accordo – scriveva a febbraio -, gli Stati Uniti ora investono, letteralmente, non in senso figurato, in quella che l’accordo chiama ‘un’Ucraina libera, sovrana e sicura’. Ciò significa che gli Stati Uniti ora hanno un enorme incentivo finanziario per aiutare a salvaguardare l’indipendenza dell’Ucraina. Se l’Ucraina sopravvive, gli Stati Uniti guadagneranno centinaia di miliardi di dollari; se l’Ucraina cade, non otterremo nulla. Dopotutto, qualcuno pensa che se Putin conquista l’Ucraina, ripagherà gli Stati Uniti per le armi che abbiamo dato all’Ucraina per combattere le sue truppe? Ovviamente no” (https://www.washingtonpost.com/…/minerals-deal-ukraine…/).
Non è neppure caso che i minerali incombano anche sulla guerra commerciale in fermentazione di Trump, in particolare ora che ha applicato un dazio aggiuntivo del 10% che negli ultimi giorni è cresciuto fino al 20%, alle importazioni dalla Cina. Dato che la Cina è un importante fornitore globale di minerali essenziali (https://www.brookings.edu/…/chinas-role-in-supplying…/), limitare le loro esportazioni verso gli Stati Uniti è diventata la risposta di Pechino, ad esempio ogni volta che Washington ha limitato l’accesso cinese alla tecnologia dei microchip statunitensi.
In risposta all’ultimo aumento lanciato dal capo della Casa Bianca, dal 10 marzo, Pechino applica nuove tariffe doganali più alte – del 10% e del 15% – su alcuni prodotti agricoli americani e ha annunciato che avrebbe ampliato tali restrizioni. La guerra commerciale di Trump provocherà ulteriori ritorsioni? Interromperà le catene di approvvigionamento minerario globali? Che ne sarà delle aziende statunitensi che hanno bisogno di questi minerali per realizzare i loro prodotti?
Il mese scorso, su JSTOR Daily, Michaela Rychetska e Aissa Dearing hanno scritto: “A prima vista, i dazi sembrano aumentare l’autosufficienza degli Stati Uniti sui minerali critici e ridurre la dipendenza dalle importazioni estere, generando sovranità energetica e incentivando il ritorno della produzione in patria. Si prevede che una regolamentazione più flessibile nell’industria mineraria nazionale per semplificare i processi di autorizzazione spianerà la strada ai produttori per lanciare o aumentare più facilmente i loro sforzi di estrazione domestica di minerali critici. Come sottolinea (Nikos) Tsafos (chief energy adviser del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis), entro la metà del secolo, la geopolitica dell’energia si orienterà in gran parte sui minerali critici e sull’idrogeno, con il commercio di queste risorse che dovrebbe rivaleggiare con la portata del predominio del petrolio nel 2020 (…) Secondo l’Oxford Institute for Energy Studies (https://www.oxfordenergy.org/…/chinas-rare-earths…/),la spinta degli Stati Uniti per l’estrazione e la lavorazione nazionali è una sfida al predominio della Cina sul 90 percento della lavorazione globale dei minerali di terre rare e sui materiali critici come i magneti al neodimio, che garantiscono il suo vantaggio geopolitico. Tali misure rischiano di destabilizzare le reti di fornitura globali, mettendo a dura prova le industrie dipendenti e intensificando le tensioni geopolitiche. I dazi sulle importazioni potrebbero aumentare i costi, sollevando dubbi sulla fattibilità della produzione interna statunitense rispetto all’efficiente catena di fornitura cinese” (https://daily.jstor.org/the-art-of-the-deal-or-the-dirt/).

Ciò considerato, Christina Lu ha scritto quindi su Foreign Policy che è proprio l’accesso ai minerali essenziali che potrebbe guidare le idee neo-imperialiste di Trump: “Cosa hanno realmente in comune Canada, Groenlandia, Panama e Ucraina? Una risposta potrebbe essere il potenziale accesso a catene di approvvigionamento senza la Cina per i minerali essenziali, le risorse alla base di tutto, dai sistemi di armi avanzati alle tecnologie per l’energia verde. Ottawa è un centro minerario, mentre la Groenlandia vanta riserve di terre rare, anche se svilupparle è un’altro paio di maniche. Anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha esaltato il potenziale delle terre rare del suo paese, nonostante l’Ucraina non abbia depositi commerciali di terre rare”. Come per altre imprese estrattive, l’estrazione e la lavorazione di minerali critici è un processo lungo e complicato, quindi inserirli nei telefoni, nelle turbine eoliche e nei sistemi d’arma domani, non è così semplice come garantirne i diritti oggi, e Morgan Bazilian, direttore del Payne Institute presso la Colorado School of Mines, dice a Lu di FP: “La realtà è che l’estrazione è complessa e difficile e non si tratta solo estrarre minerali dalla terra, ma anche lavorarli, portarli sul mercato e farli diventare parte delle catene di approvvigionamento”, il che lo rende un “problema pluridecennale, anche in paesi che non sono in guerra” (https://foreignpolicy.com/…/trump-rare-earth-critical…/).

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