Le settimane e i mesi della crisi del debito greco hanno segnato un passaggio traumatico nella storia del processo di unificazione europeo. Molteplici sono state le prese di posizione che hanno portato ad una polarizzazione dell’opinione pubblica fra i sostenitori del cosiddetto rigore dei conti e quanti invece, in polemica con un’Europa “a guida tedesca” e con la “tecnocrazia di Bruxelles” sostenevano il taglio del debito di Atene. All’interno di questo dibattito è venuta meno, da entrambe le parti, una sensibilità europea per la questione. Il processo comunitario si è rivelato segnato da profondi limiti e connotato ancora oggi, sul piano politico e culturale, oltre che economico, come un rapporto fra stati piuttosto che come percorso di costruzione di un soggetto politico vero e proprio. A testimoniarlo vi è il riemergere di uno stereotipo e di un’idea politica.
Nei giorni della crisi, l’opinione pubblica schierata sul fronte di una richiesta ad Atene di riforme ad ogni costo, per quanto pesanti e potenzialmente laceranti sul piano sociale, lamentava la supposta ingiustizia di riversare il carico del debito greco sui contribuenti degli altri stati europei. Una posizione simile emergeva anche all’interno di quegli ambienti fortemente critici nei confronti del processo europeo, come Lega Nord e Movimento 5 Stelle in Italia, o come lo Ukip inglese e il Front National francese. Se sul piano politico queste forze spalleggiavano l’ala più intransigente del governo greco, sostenendo la necessità dell’uscita dall’euro per mettere in discussione la sopravvivenza della moneta unica, dall’altro sostenevano con la stessa forza l’indisponibilità da parte degli altri paesi a farsi carico del debito ellenico.
Lo scontro consumatosi nelle diverse riunioni europee fra il governo di Atene, le istituzioni europee e internazionali e i governi dell’eurozona ha per altro verso alimentato un dibattito pubblico in cui il tema che è tornato ad assumere una posizione centrale è stato quello della sovranità nazionale. Il contenuto finale dell’accordo raggiunto è stato additato come un attacco alla sovranità nazionale, come una privazione della legittima potestas espressa dal popolo greco attraverso le elezioni politiche e il referendum a vantaggio di “poteri forti”, della potestas finanziaria e monetaria dei grandi creditori che rappresenterebbe il vero potere del nostro tempo. Non solo politici figure di rilievo della scena politica nazionale ed europea hanno lamentato l’attacco alla sovranità nazionale: importanti intellettuali si sono espressi con preoccupazione sulla privazione della sovranità, fra gli altri in Italia Gustavo Zagrebelsky su Repubblica del 27.07, vista come una messa in discussione delle libertà civili e politiche salvaguardate dallo stato moderno.
Cercando di muoversi attraverso le due distinte posizioni, pur con le loro molte sfumature interne, emerge più o meno diffusa un approccio alla “questione della sovranità” che appare privo di una sensibilità storica. Il concetto stesso di sovranità, frutto del secolare processo di costruzione degli stati nazionali iniziato nel tardo medioevo, è un elemento che alla luce della più recente storia del Novecento appare assai problematico. È noto come l’avvio del percorso che ha portato alla Comunità economica europea prima e all’Unione europea poi sia il frutto di una radicale messa in discussione della sovranità nazionale come elemento da spendere sul piano delle relazioni fra i popoli europei. Cento anni fa, in nome di una radicalizzazione dell’idea di nazione, “le luci si spegnevano in tutta Europa”, per usare le parole con cui Sir Edward Gray, ministro degli esteri del Regno Unito, accompagnava l’inizio delle ostilità fra il suo paese e la Germania nel 1914. Si apriva allora, con la prima guerra mondiale, quella che è stata definita, non a torto, la “guerra civile europea” in nome dell’idolatria della “nazione”, segando la fine di un eurocentrismo edificato proprio dagli stati del vecchio continente attraverso lo strumento della sovranità.
Questa coscienza di una crisi del ruolo storico della sovranità, che appare radicale e profonda e forse irreversibile, impone alcuni interrogativi. Concepire il potere nei termini giurisdizionali e identitari non aiuta a comprendere una realtà oramai mondiale, in cui i poteri che si trovano in relazione reciproca sono diversi e variegati per natura e forme. Per altro, a leggere bene fra le righe del discorso sulla sovranità, traspare una sovrapposizione indebita e fuorviante fra il concetto di sovranità nazionale e quello di governo democratico delle istituzioni dello stato. Non sempre le due cose vanno assieme e la presenza di istituzioni democratiche non significa che l’espressione di un indirizzo politico che emerge in uno stato debba avere un crisma di “sacralità” e intangibilità, un valore assoluto che prescinde dalle relazioni che quello stato ha con altri suoi pari.
Il quadro storico che abbiamo di fronte presenta incertezze e spaventa, nella misura in cui non risponde più ai paradigmi filosofici e politici con cui fino ad ora abbiamo letto la realtà e l’abbiamo, in una certa misura, formata. Per questo occorre chiedersi se la soluzione alla crisi evidente dell’Europa debba essere ricercata nel ritorno della sovranità nazionale o se piuttosto non occorra uno sforzo intellettuale e politico, alla ricerca di nuovi paradigmi e di un nuovo linguaggio che si facciano carico della storia del secolo breve e dei decenni successivi, che è anche storia europea.
Rispetto a questo contesto la questione di una tassazione europea posta qualche giorno fa dal ministro delle finanze tedesco Schäuble rappresenta un interessante punto di novità. Si tratta di un argomento di discussione che investe una molteplicità di nodi problematici e che, muovendo dal piano della costruzione di una proposta politica, affronta le questioni basilari che riguardano non solo il processo politico di costruzione dell’Europa ma più in generale l’identità culturale e morale di quella che nelle intenzioni dei padri fondatori doveva essere la nuova patria di popoli fino ad allora rivali e nemici. Prima di tutto la proposta Schäuble pone il tema dell’Europa e del suo statuto politico. In secondo luogo riguarda il fisco, ossia il rapporto fra i cittadini e la cosa pubblica, l’organizzazione della cosa pubblica e il tema della redistribuzione della ricchezza, cioè dell’equità sociale ed economica. In terzo luogo, la questione del fisco, tocca anche temi legati al lavoro e agli investimenti, nella misura in cui una fiscalità europea pone la questione di cosa fare con le risorse raccolte. Infine il tema pone anche un problema politico di partecipazione e rappresentanza: chi decide delle tasse, in che misura e come? Lo fa il Parlamento europeo in rappresentanza dei cittadini dell’unione? E chi applica la norma? Un “governo europeo” democraticamente responsabile di fronte al parlamento o di fronte ai cittadini? In che rapporto sta questo “governo europeo” con quelli nazionali? Un rapporto diverso da quello attuale in cui governi più “rilevanti” sembrano avere una sorta di diritto di indirizzo delle linee politiche generali? Dietro quest’ultimo punto torna la questione della sovranità, di una sua riformulazione o di un suo definitivo superamento.
Gli interrogativi che suscita l’idea di dare corpo ad un primo nucleo di fiscalità europea rappresentano lo stimolo ad una discussione che può rappresentare il luogo in cui dar forma ad un ripensamento e ad una riforma del processo di integrazione continentale. Muovendo dalla questione di come organizzare un fisco europeo e dunque un Tesoro europeo, si apre la possibilità di discutere dell’Unione al di là del formalismo giuridico che ancora oggi ne fa il prodotto di un accordo internazionale e di pensare invece al consiglio dei ministri e al parlamento europeo come a istituzioni politiche dotate di una specifica potestas, da esercitare nel quadro di un equilibrio di poteri che è tutto da discutere e progettare e più ancora in rapporto ad una cittadinanza europea che rappresenta il vero grande obiettivo politico di un continente che non ha bisogno di una maga di Endor che evochi i fantasmi del suo passato.
Professore di storia della filosofia medievale all’Università di Bologna, si occupa di ricerca nell’ambito della storia del cristianesimo. È responsabile Meic per la Toscana