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La stagnazione infinita del Pd

Giovanni Cominelli mercoledì 10 Marzo 2021
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di Giovanni Cominelli



L’immagine dello sciame sismico è la più adeguata per descrivere gli effetti provocati dall’avvento del governo Draghi, ultima scossa quella delle dimissioni del segretario del PD Nicola Zingaretti. Di certo, le cause che le hanno determinate non sono quelle denunciate da Zingaretti, allorché le attribuisce all’avidità dei capi-corrente per “le poltrone”.

Questa denuncia è la controprova più immediata dello sbando culturale e politico del segretario del PD e, dunque, del PD stesso. Che la politica si muova sul campo di battaglia del potere è esattamente ciò che deve accadere. Da sempre ambizioni personali,  volontà di potenza e molti vizi capitali accompagnano la lotta per il potere. Che però ha sempre come posta in gioco una determinata idea della società, delle istituzioni, della vita quotidiana delle persone.

Che un segretario di partito scopra solo ora la forma, ma non l’essenza effettiva della politica fa specie! Significa soltanto che il livello culturale e la tenuta antropologica del personale politico, che decide, proprio per il potere di cui dispone, dei destini di tutti noi, hanno ceduto di schianto. Degno corollario ne sono le dimissioni via Facebook, l’equivalente recente del bar.

Vi immaginate Berlinguer che si reca al bar di fronte a Botteghe oscure per dare le dimissioni? 
L’utilizzo del linguaggio populista non è, tuttavia, un incidente. È solo l’ultima conseguenza di una cultura politica, che ha generato linee politiche, scelte, alleanze, fino all’attaccamento morboso al Conte 2. 
Questo delle dimissioni è solo l’ultimo episodio di un lungo errare del PD alla ricerca di un proprio baricentro identitario. Il bruco, invece di diventare farfalla, continua a rimanere prigioniero della bava che addensa attorno a se stesso per proteggersi dagli eventi del mondo. 

Il PD è nato come partito a strati. Dal Pci è arrivato, attraverso successive trasmutazioni di nomi e di pelle, gran parte del gruppo dirigente, formatosi dagli anni ’70 in avanti, alla scuola di Berlinguer, Amendola, Napolitano, Macaluso.

Si tratta di D’Alema, Veltroni, Bersani, Fassino, Violante, Bettini, Zingaretti. 
Dalla DC sono arrivati Castagnetti, già segretario del PPI e poi della Margherita, Franceschini, Prodi, Parisi, Renzi. 
I Cristiano-sociali con Pierre Carniti, Ermanno Gorrieri avevano già aderito al PDS, poi DS, la sigla precedente il PD. La componente socialista che non aveva aderito al Partito delle libertà si era coaugulata nella sigla dello SDI di Boselli e Martelli, per aderire alla Cosa 2 nel 1997. Martelli se ne  distaccherà con la Lega socialista.

Che cosa impedito l’amalgama nel PD della tradizione comunista, di quella cattolico-popolare e di quella socialista, che pure erano state co-redattrici della Costituzione e co-fondatrici della Prima repubblica? La causa materiale è stata che il sistema politico della Prima repubblica è imploso tra il 1989 e il 1994, dalla caduta del Muro in avanti, sotto la triplice spinta del leghismo, del referendismo istituzionale, di Mani Pulite.
 I resti politico-culturali di quel sistema si sono così  ritrovati in una sorta di ospedale da campo, l’Ulivo, ciascuno per curare le proprie ferite. L’esperienza dell’Ulivo fallì nel giro di un paio d’anni, perché comuni erano i traumi, ma nessuno aveva elaborato le terapie.

Fuor di metafora: si era consolidata un’illusione trasformistica, complice la provvisoria vittoria su Berlusconi, che l’89 e quello che ne era seguito fosse solo una parentesi e che si potesse, cambiate le sigle, continuare con la stessa politica e con la stessa cultura politica di prima. 
E qual era? Che agli eredi del PCI/PSI toccasse per diritto e tradizione la rappresentanza della classe operaia, agli eredi della DC quella dei ceti medi.

Per il resto, tutto doveva procedere come prima. Messe insieme le sigle, gli elettorati rispettivi avrebbero fatto altrettanto. Gli eredi del PCI hanno continuato ad usare lo stesso lessico, ciechi di fronte al fenomeno che aveva già cominciato a rendersi visibile nel corso degli anni ’90: a Bergamo il 30% degli iscritti alla FIOM votava già Lega Nord. Gli operai non stavano affatto sparendo, semplicemente avevano cessato di essere “classe operaia”. Agli eredi della DC il gioco della rappresentanza veniva più semplice: la DC aveva amministrato l’Welfare e così avrebbe continuato a fare. L’unico lampo di novità sarebbe potuto venire dal lascito della cultura politica socialista, quella espressa alla Conferenza programmatica di Rimini del 1982.

Era una cultura socialista e liberale, attenta alle nuove dinamiche socio-economiche e alla dimensione istituzionale, che by-passava d’un balzo quella comunista e quella democristiana. Ma si era persa dopo il 1987, con la fine dei governi Craxi, soffocata dall’andreottismo e dall’ostinata ostilità comunista. E dopo il 1994 si é dispersa, in mille rivoli, ancorché preziosi.

Il PD è nato da questa inerzia di tradizioni. Fu Renzi a rendersi conto per primo che il Paese e il PD stavano in stagnazione. Il 29 agosto 2010 lanciò lo slogan della «rottamazione senza incentivi» dei dirigenti di lungo corso del PD e la Carta di Firenze. L’8 dicembre 2013 viene eletto segretario del PD con il 67,5% dei voti, battendo tutta la vecchia nomenklatura PCI-DC. Che da allora non gli ha più dato pace. Fu ed è considerato un corpo estraneo al PD, fino alla sua (auto-)espulsione il 16 settembre 2019. La storia recente è nota.

Quel che è evidente è che il PD non è uscito dalla stagnazione. L’ultimo tentativo di rinnovarsi, rimanendo uguale a prima, lo ha sperimentato Zingaretti, aggrappandosi al barcone di salvataggio del “populismo buono” del M5S. Che però si è rovesciato. 
Se c’è una spiegazione di questo travaglio irrisolto, che l’attuale gruppo dirigente del PD non riesce a darsi, è che continua ad usare antiche categorie di pensiero, che non vedono le nuove forze motrici della società e non sentono il bisogno di un nuovo assetto istituzionale, che ricollochino i partiti in una nuova relazione con la società, con il governo, con lo Stato. Mancano molte cose all’attuale PD, ma, in primo luogo, una capacità di interpretazione e di rappresentanza delle nuove forze produttive.
Avendo posto mano all’aratro, il PD continua a voltarsi indietro. È facile prevedere che le convulsioni siano solo all’inizio.

Editoriale da santalessandro.org
 pubblicato Sabato 6 marzo 2021

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