«Per tutta la durata del film – racconta la giornalista de
Il Foglio – sentiamo quello che accade in un campo di concentramento, cioè sentiamo quello che può sentire una famiglia che vive lì accanto, e a cui i rumori arrivano attutiti dal muro di cinta del giardino e dalle mura domestiche. Noi non vediamo che cosa accade dall’altra parte del muro, ma lo sentiamo, ne veniamo contaminati, e a un certo punto, verso la fine del film, siamo nella cameretta di uno dei figli, un bambino delle scuole elementari, ben pettinato e ben vestito che gioca con i soldatini sul pavimento della sua stanza con la finestra aperta. “Che cos’ha fatto? Ha litigato per una mela. Annegalo nel fiume”. Il bambino sente questo scambio, sente le urla, i latrati, si alza e chiude la finestra. Non vediamo la morte, non vediamo mai le torture, lo scempio, il denudamento, ma vediamo le mogli naziste spettegolare nel tinello dei vestiti che si sono prese, uno di una ebrea che “era alta la metà di lei”, vediamo la moglie di Höss (Sandra Hüller di Anatomia di una caduta) che si prova una pelliccia di visone allo specchio e in tasca alla pelliccia trova un rossetto: se lo prova con voluttà ma di nascosto, perché quel rossetto ha toccato le labbra di una donna ebrea. C’è un insopportabile distacco, un’insopportabile specie di allegria e di trionfo della moglie del comandante, figlia di una donna di servizio, che arriva in visita e le dice “sei proprio caduta in piedi figlia mia”, e lei è orgogliosa di mostrarle il riscaldamento centralizzato, i fiori incantevoli, i materassi comodi da “regina di Auschwitz” (…) E vediamo il fumo che sale dal camino, quindi dal forno crematorio in funzione tutto il giorno, lo vediamo molto nitido per pochi istanti, al di là del muro e contro un cielo livido e allucinato, e intanto ci troviamo dentro un giardino quasi lussureggiante, dove la regina di Auschwitz è estasiata dalla crescita del cavolo rapa che fa tanto bene ai bambini, e totalmente indifferente a tutto il resto. Ci troviamo in una realtà esaltata e bucolica (credo che non userò mai più questo aggettivo spaventoso, una volta terminato questo articolo), in cui il padre amorevole legge le fiabe dei fratelli Grimm, e legge di Hansel e Gretel che riescono alla fine a spingere nel forno la strega cattiva. Questo è troppo, questo è tutto, ed è di una tale potenza grottesca vedere il picnic in riva al fiume, all’inizio del film, che l’orrore del picnic cresce a poco a poco dentro la testa, perché quella scena banale, quella scena idilliaca e appunto bucolica ha bisogno di espandersi nel cervello, di mettersi in connessione con i latrati dei cani e con il rumore degli scarponi sul selciato. Si vedono dei deportati in cammino con le casacche grigie, a un certo punto, mentre Höss gira a cavallo per la campagna alla ricerca di un airone. E quindi sta a noi immaginare, ricordare, sapere, finalmente capire che cos’è la banalità del male: il male estremo e non profondo. Il male ottuso, borghese, diligente, meccanico, ciecamente accettato, il male che si espande tutt’intorno e che diventa una vita normale».