di Giovanni Cominelli
A quasi sei mesi dalla sconfitta del 4 marzo, il PD non ha ancora messo a punto una strategia né di opposizione né di governo. La causa di fondo è che la cultura politica del gruppo dirigente del PD e, si suppone, dei suoi iscritti resta un impasto confuso, forse irreversibilmente.
Tutti uniti, tutti divisi
La conferma del pasticcio viene dall’articolo-piattaforma su La Repubblica del primo segretario del PD, Walter Veltroni: c’è una destra estrema al governo, che la parola populismo non descrive per niente. Uniamoci dunque tutti (in nome dell’antifascismo?), recuperiamo i voti di sinistra del M5S e basta con la rottamazione, cioè basta con Renzi. La sua cultura non ci appartiene.
Il modello sembra essere quello della manifestazione di Milano contro Orban-Salvini, nella quale sono confluite le forze più diverse e distanti dell’arcobaleno della sinistra, tutte unite contro i due, tutte divise sul che fare. Riaffiora il vecchio dilemma, esploso dopo il 4 marzo: allearsi o no con il M5S? Sì, risponde Veltroni, perché quelli sono voti nostri, scappati dall’ovile, pecorelle smarrite che un buon pastore deve essere in grado di riportare a casa. E Veltroni ha ragione. Perché, sì, il M5S è un prodotto della sinistra comunista, cattolica, ambientalista degli ultimi trent’anni. Aria di famiglia, si potrebbe dire!
Vi si ritrovano quale piattaforma ideologica unificante l’anticraxismo prima e poi l’antiberlusconismo, ambedue feroci, che a loro volta sono il risultato di molte pulsioni che provengono da quella storia variegata: “il governo degli onesti” di berlingueriana memoria, il giustizialismo – se la rivoluzione non è riuscita a farla il proletariato, facciamola fare ai giudici! – il moralismo, che usa categorie robespierriste quali complotto e tradimento e pratica la ghigliottina mediatica, il politicismo integrale alla Rousseau – le istituzioni, le leggi, l’amministrazione sono variabili secondarie della Volontà popolare – il dirittismo estremo, l’ambientalismo anti-sviluppo e anti-industria, il meridionalismo vittimistico e lamentoso, lo statalismo centralista e assistenziale contro il cosiddetto neo-liberismo selvaggio, confondendo la privatizzazione selvaggia, realizzata anche con Prodi, con la concorrenza, introdotta pochissimo da Berlusconi e dalla sinistra al governo.
Da Mani pulite alla Rete, la stessa piattaforma culturale
Nella sinistra radicale c’è anche una quota-parte di sovranismo, ovviamente “di sinistra”, cioè contro le multinazionali e la finanza, di cui l’UE sarebbe bieco strumento, e perciò contro l’euro. Costoro non hanno mai lasciato il SIM, lo Stato imperialistico delle multinazionali.
Quanto alla politica, si sa, è in quanto tale corrotta. Occorre una rigenerazione radicale, promossa dai cittadini onesti e da politici del tutto nuovi. Il curriculum migliore del politico nuovo è il non-curriculum, la miglior competenza è l’incompetenza. Da Mani pulite alla Rete, all’Italia dei Valori, ai Girotondi fino a settori di sinistra radicale e a pezzi dello stesso PCI-PDS-DS-PD questa è stata la piattaforma culturale.
Il M5S si è posto in perfetta continuità con questo lascito, ha fatto una prima raccolta dell’elettorato di sinistra nel 2013, aggiungendo alla piattaforma l’enfasi sulla democrazia diretta resa possibile tecnicamente dalla Rete. Nel 2018 il M5S ha completato la mietitura dell’elettorato del PD, trovando il terreno ideologico del tutto arato. Benché il fatto appaia oggi retrospettivamente oscurato, il vincitore delle elezioni è stato il M5S, non Salvini con il suo 17%. Ed ha vinto, perché ha raccolto tutti i detriti ideologici peggiori della storia della sinistra, che il PCI e la DC avevano addomesticato e tenuto sotto controllo.
Di sinistra, sì. Ma del declino
Ha ragione Veltroni, quindi, il M5S è di sinistra. Sbaglia però, e clamorosamente, nelle conseguenze che ne trae.
Nella posizione di Veltroni sul M5S si leggono in filigrana contenuti e stilemi del vecchio PCI berlingueriano. Come recuperare questo elettorato? C’è un solo modo possibile: convergenze programmatiche con il M5S.
Se il PD si inoltrasse su questa strada, recupererebbe forse tutto il vecchio elettorato, forse rifarebbe l’Ulivo… Forse. Ma questa Union sacrée – Sinistra PCI, Sinistra DC, Sinistra radicale – tenuta insieme da una piattaforma antifascista e da un programma che occhieggia a quello del M5S sarebbe in grado di governare l’Italia di oggi, sarebbe “la sinistra di governo” o la sinistra del declino dell’Italia, la sinistra “unfit”?
I dilemmi autunnali e le elezioni europee
Passata l’onda mediatica che colloca in questi giorni al primo posto la questione immigrati, l’autunno presenterà dilemmi pesanti sul piano economico-sociale e perciò produttivo, occupazionale e finanziario. E le elezioni europee del 2019 lasciano intravedere un crinale lungo il quale è urgente collocarsi da subito e raccogliere forze, decidendo se si sta sulla linea Macron o no.
D’altronde, se il disegno di Salvini è chiaro – usare la questione immigrazione come detonatore per far esplodere l’Unione europea – la piattaforma della piazza di Milano contro Orban-Salvini appare già perdente. Di tutto ciò, nulla traspare nella predica ecumenica di Veltroni. L’ILVA: si chiude o no? Le Autostrade: si nazionalizzano o no? Il deficit: si sfora o no? La riforma della scuola: si riparte o no? Il M5S è populismo totalitario o no?…
Una frana che viene da lontano
Come si vede, la frana del PD verso il M5S viene da lontano. Dopo la fine del PCI, del PSI, della DC, la sinistra non ha ancora trovato la strada. Vi si aggirano minoranze liberali, di origine migliorista, socialista, cattolica, ma non sono riuscite a costruire la spina dorsale della sinistra. Il tentativo generoso ed effimero di Renzi è stato soffocato nella culla sia a causa di incoerenze sul piano culturale sia per cedimenti al populismo sia per errori di manovra politica, di cui il primo decisivo è certamente stato la rottura del patto del Nazareno con Berlusconi. Anche Renzi ha pagato dazio all’antiberlusconismo interno.
Oltre la rottamazione, serve un cambio di lettura della società
Sì, il lessico della “rottamazione” è suonato poco elegante, molto populista, ma per le ragioni opposte a quelle criticate da Veltroni: non è stata radicale. Al punto che tanto a livello centrale che a quello locale, Renzi non è stato in grado di”rottamare” nessuno. Ciò che è mancato e continua a mancare è un cambiamento delle categorie di lettura e interpretazione della società italiana. Pare che con l’attuale gruppo dirigente, di cui Veltroni fa parte, non sia possibile.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.