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L’acqua, il suolo: che fare

Massimo Veltri domenica 9 Ottobre 2022
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di Massimo Veltri

 

Poco più di venti anni fa il Parlamento verificò attentamente quanto del lavoro di Giulio De Marchi era stato portato a compimento, quanto disatteso, quanto da aggiornare: propose venti priorità su cui ineludibilmente intervenire. Ogni capitolo di quel lavoro, ogni parola, andrebbe puntualmente ripreso in esame.

Giulio De Marchi era professore di Idraulica al Politecnico di Milano e dopo l’alluvione di Firenze, nel novembre del 1966, fu incaricato dal Governo in carica di studiare quanto accadeva nel nostro Paese nel campo della difesa del suolo e di proporre soluzioni di intervento: la misura era evidentemente colma, la difesa del suolo diventava una priorità dopo i tanti eventi disastrosi, i troppi provvedimenti tampone.

Giulio De Marchi, indiscusso padre dell’Idraulica nazionale, presiedette una Commissione di numerosi esperti di scienze della terra e dell’acqua, il gotha in pratica dei saperi che insistono sulla materia, e in pochi anni licenziò un denso e articolato rapporto in più volumi, con l’indicazione analitica del che-fare. Il frutto della Commissione De Marchi, le cui parole chiave-sintetizzando al massimo- erano: previsione, prevenzione, pianificazione, bacino idrografico, divenne diversi anni dopo dettato normativo. Nel 1989 le Aule parlamentari licenziarono il testo della legge n. 183 sulla Difesa del suolo, una legge quadro che demandava alle singole Regioni di dotarsi di norme ad hoc dentro il quadro complessivo delle disposizioni nazionali.

Malgrado impugnata davanti la Corte Costituzionale e per alcuni tempi posta perciò in stand-by la legge 183 rappresentò una vera e propria svolta, almeno sulla carta in quanto le Regioni giacquero nell’inerzia-troppi poteri da smuovere, tanti i nodi da sciogliere-e fu necessario un check per rimettere in moto la macchina.

Poco più di venti anni fa, appunto, il check fu portato a compimento grazie al Comitato Paritetico Senato-Camera sull’Attuazione della legge 183, che nel 1999  in poco meno di un anno verifico’ lo stato delle cose e propose modifiche normative, semplificazioni, aggiornamenti, interventi amministrativi, stimoli affinché la legge nazionale divenisse norma regione per regione.

Erano quelli tempi in cui il contributo della comunità scientifica era rilevante, l’aria,  la tensione che si respiravano nel Paese avevano una forte tonicità: si vararono infine le leggi regionali e ebbe inizio un percorso volto a mettere in sicurezza il territorio nazionale. Sennonché irruppero non una ma più di una Direttiva Europea mentre tenevano banco temi quali la capacità di spesa dei soggetti aventi voce in capitolo, veniva ribadita la necessità del presidio tecnico, strumentale e umano del territorio; la qualità progettuale veniva sovente chiamata in causa, così come la farraginosità delle procedure e il puzzle dei centri di competenze. Le direttive europee, appunto, mutarono il quadro legislativo e  il lotto dei soggetti responsabili e gestionali, corrispondentemente a un forte calo di attenzione rispetto agli argomenti acqua e suolo e all’irruzione degli allarmi sempre più crescenti derivanti dai mutamenti climatici. Proprio quando maggiore doveva farsi l’attenzione tanto più ci si abbandonava a una sorta di ineluttabilità.

Oggi, dopo una estate di siccità, puntualmente si presentano morti e sconvolgimento, sempre più ci si rende conto che il dilemma non può essere rischio zero-deregulation, ne’ tantomeno dichiarare che a fronte di eventi estremi ‘imprevedibili’ l’uomo è disarmato e nulla può, no: semplicemente non è così perché si possono e devono instaurare nuovi modi di ideare e progettare insediamenti sul territorio, occorre che la pratica della manutenzione di terre e di acque diventi pratica corrente, che pianificare e programmare riassumano la loro centralità, previsione e prevenzione ridiventino parole chiave.

E se da taluni ambienti c’è chi accenna alla necessità di un G8 o un G20 sui temi idrico-idrologico-pianificatorio, da altri, più pragmaticamente, si suggerisce di mettere a disposizione le risorse del PNRR per l’opera ‘infrastrutturale più indifferibile dell’Italia’ o per altro verso per introdurre misure di resilienza, almeno le più indifferibili.

Enfasi a parte, è appena il caso di far rilevare che non siamo all’anno zero per quanto riguarda conoscenze e approfondimenti scientifici dei diversi fenomeni; parimenti: che di grida e allarmi spenti pochi giorni dopo l’evidenza dei danni e dei lutti le cronache sono zeppe; che una guida reale del paese non è possibile non inserisca aspetti strutturali come questi nella parte alta dell’agenda del che fare.

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