LibertàEguale

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di Umberto Minopoli

 

Martina dice : “occorre un Pd riformista e radicale”.

Che significa riformista lo sappiamo: fare le riforme. Quelle utili e necessarie al paese. E non c’è un modo o una tecnica, radicale o meno, per fare le riforme. Ci sono le regole e i vincoli del gioco parlamentare.

 

Che significa radicale?

Che significa, invece, radicale non lo sappiamo. O meglio: lo sappiamo nell’accezione nobile del partito di Pannella: radicale inteso come “liberalismo intransigente”, rispetto, senza compromessi, delle forme della legge e dei diritti costituzionali. Una cosa bella e sempre necessaria.

Ma non è questo il significato che a sinistra si dà al termine radicale. Anzi è l’opposto. Radicale è, a sinistra, l’ultima delle aggettivazioni che la sinistra post-rivoluzionaria ha cercato di accompagnare al termine “riformismo” per renderlo accettabile a chi proveniva dalla tradizione ideologica del comunismo, dell’antagonismo e del rivoluzionarismo. Che erano nati, appunto, in opposizione al riformismo.

Nei decenni della lenta evoluzione riformista della sinistra maggioritaria in Italia abbiamo sempre avuto dei termini o delle aggettivazioni che consentissero, alla sinistra post-comunista- di accettare il riformismo ma in un’eccezione distintiva rispetto al riformismo originario ed autentico: quello dei socialisti liberali e democratici oppositori del comunismo. Il problema fu solo italiano.

 

Comunisti e riformisti: le due sinistre

Solo in Italia abbiamo avuto, infatti, una sinistra divisa tra una parte maggioritaria (comunista) e una minoritaria (riformista) in competizione tra loro. Ed in cui la parte maggioritaria, troppo a lungo, ha preteso di accompagnare la sua (lentissima) inevitabile evoluzione riformista con il mantenimento (per ragioni elettorali, di fidelizzazione simbolica e di appartenenza) della distinzione di principio dal riformismo gradualista e a-comunista.

Questa pretesa ambiguità ha segnato la sinistra ben oltre la durata del Pci. E perdura oggi negli epigoni della sinistra. E nello stesso Pd che, per patto costitutivo originario, ne dovrebbe essere immune. E invece non lo è.

Una antologia delle insulse aggettivazioni del riformismo, per distinguere quello “buono” dei comunisti o post-comunisti da quello “cattivo” dei riformisti autentici (accusati di volere un riformismo “integrato” nella “logica del sistema capitalistico”), cominciò nel 1958. Allora si oppose, da parte del PCI, alle riforme evocate dal primo centrosinistra l’idea del riformismo “strutturale”. Che cosa volesse dire di diverso dalle riforme del centrosinistra non si capì mai. Che differenza concreta ci fosse (fatto legittimo) tra la riforma delle pensioni evocata dal governo Dc-Psi ad esempio ed una “strutturale” evocata dall’opposizione comunista, non si capì mai. Se non l’evocazione della portata “strutturale” della riforma come preteso “superamento della logica del sistema”.

 

Superare la logica del capitalismo?

Era evidente, anche allora, che questa pretesa era solo simbolica, terminologica, lessicale, evocativa ed astratta: con la pretesa di “superare la logica del capitalismo” (mai spiegata, perché impossibile, nel suo ubi consistam) nessuna riforma, in un parlamento democratico, si sarebbe mai fatta. E, purtroppo, anche per questa pretesa astratta dei comunisti, le riforme in Italia non si sono quasi mai fatte. E non abbiamo conosciuto, anche per questa pretesa di un riformismo non riformista, la grande modernizzazione socialdemocratica degli anni 60 in Europa.

Le “riforme di struttura” del 1958, in polemica con le riforme senza aggettivi dei riformisti, si ripercuoteranno nei decenni successivi. Sempre la sinistra maggioritaria ha mantenuto la pretesa di aggettivare il riformismo per renderlo digeribile agli orfani dell’ideologia.

Negli anni ’80, in pieno collasso del comunismo e in risposta all’offensiva culturale sulle ‘ragioni del riformismo” del nuovo Psi craxiano, nell’ultimo Pci, e poi nel Pds, venne in voga il termine “riformismo forte” per distinguerlo da quello debole dei riformisti.

Perché ci fosse bisogno di queste ambigue, inconsistenti, stucchevoli distinzioni e aggettivazioni era ancora più astratto, sbagliato e illogico che a tempi del Pci: il Pds infatti nasceva dal superamento definitivo del comunismo e delle sue distinzioni di campo. Che motivarono, per oltre 60 anni, una qualche distinzione tra il riformismo ( “strutturale” ) dei comunisti e quello (“integrato”) dei socialisti. Insomma si viveva di bolle ideologiche, astratte, fumose. E che servirono solo a rallentare ed impedire che in Italia si affermasse “un riformismo che facesse le riforme”.

 

Dall “riformismo mancato” al Lingotto

Insomma: la pretesa dei comunisti e dei post-comunisti di aggettivare le riforme ha contribuito (con altre cause, ovviamente) a fare dell’Italia il maggior caso europeo di “riformismo mancato”. Che è alle origini delle tare attuali dell’economia italiana.

Il termine “radicale” per evocare alterità, allusione ad una logica antisistema, a una distinzione della sinistra post-comunista da quella riformista venne, giustamente, revocata di validità da Veltroni, ai tempi del Lingotto, quando, per primo, evocò il divorzio tra la sinistra democratica e quella radicale (antagonista, antisistema) come dato della fase nuova segnata dall’avvento di un “partito democratico”. Inteso come superamento delle divisioni del passato tra le famiglie politiche comunista, socialista e popolare.

E’ ovvio che in questa accezione unitaria non aveva più senso ogni pretesa ulteriore di aggettivazione del riformismo e di distinzione in esso.

 

Il riformismo di Renzi e l’ambiguità post-comunista

Negli anni del governo Renzi, però, l’ambiguità post-comunista e di una parte della sinistra sul riformismo è tornata. Ed è tornato l’ambiguo tentativo di distinguere le riforme e di aggettivare il riformismo.

Il jobs act, ad esempio, è stato avversato come esempio di riformismo dei “poteri forti”. Aggettivazione estesa a tutte le riforme dei due governi ultimi del Pd. Con il risultato che l’avversione della sinistra “radicale” al riformismo di Renzi si è coniugato a quello dei conservatori determinando la crisi del primo e unico tentativo di “riformismo vincente” in Italia.

Oggi Martina (e Zingaretti e il Pd post-renziano) tornano ad accoppiare il termine riformista a quello radicale. Ma oggi il termine “radicale” – lo capiranno i dirigenti del Pd? – è, addirittura, più ambiguo, distorsivo e pericoloso che nel passato. Per la novità rappresentata dal populismo, dalla natura dei suoi programmi e dalla sua prova di governo. Per anni l’evocazione “radicale” ha significato, a sinistra, la distinzione (ideologica ed astratta) dal riformismo gradualista, equilibrato, attento alle compatibilità e alla fattibilità delle riforme. Una sciocca distinzione che è servita solo a dimostrare impotenza ed inefficacia.

Con il radicalismo le riforme non si fanno. E la sinistra radicale è diventata poco più di un flatus vocis.

 

Radicalismo e populismo

Ma con il populismo le cose sono cambiate. Non si può più evocare il radicalismo, a cuor leggero e irresponsabilmente, senza fare i conti con la realtà della politica populista: la
promessa di rivolgimenti, di riforme contrastanti tra loro, di sollevazione di ogni aspettativa, egoismo, corporativismo, demagogia. Raffazzonate e riassunte in termini evocativi, astratti, indistinti e ambigui come “cambiamento” o “riforme radicali”.

Radicale evoca oggi, in politica, la radicalizzazione populista: estremismo, irresponsabilità, confusione e dissesto nelle politiche economiche. Alla prova del governo, il radicalismo si rivela impossibile. E porta allo sfascismo. Non abbiamo bisogno di versioni di sinistra del populismo. Abbiamo bisogno di un’alternativa ad esso. Che deve essere diversa da loro su tutto: contenuti, fini, valori, linguaggio, obiettivi e metodi.

 

L’ambiguità che blocca la sinistra italiana

Il Pd è vecchio anche perché è fermo alle suggestioni, ai linguaggi, alle pretese, all’ambiguità che hanno bloccato, per un secolo, la sinistra italiana. Quegli ossimori illogici – “di lotta e di governo”, “riformista e radicale” – che hanno impedito all’Italia di avere le riforme.

L’ossimoro – riformista e radicale – è stata solo una rendita di posizione per la sinistra: fidelizzava un elettorato irrigidito nelle ideologie. L’epoca delle rendite di posizione, ideologiche e terminologiche, è finita. Il populismo costringe alla chiarezza. O si scompare. I dirigenti del Pd potranno guidare un partito di centrosinistra utile quando capiranno che o si è forza tranquilla di governo e riformista, senza aggettivi, o si è sinistra radicale. Cioè inservibile.

 

 

 

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1 Commenti

  1. Anna Luisa De Carli martedì 18 Dicembre 2018

    Articolo molto bello, che va al cuore del problema e che lo spiega molto bene. Purtroppo non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e speravo che Minniti fosse la persona giusta per portare avanti questa battaglia. Sarà Giachetti in grado di farlo capire?

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