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L’atlantismo italiano in bilico per difetto di cultura liberale

Vittorio Ferla mercoledì 25 Maggio 2022
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di Vittorio Ferla

 

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia soffia sulle ceneri dei peggiori ritardi nazionali. Chi si aspettava un coro unanime di riprovazione nei confronti del paese invasore a difesa del diritto internazionale è rimasto deluso. Chi pensava che la solidarietà verso le vittime innocenti avesse la precedenza contro i miseri calcoli di bottega resta allibito. Chi contava sulla reazione collettiva in difesa della democrazia, dell’Europa e dei valori occidentali contro un tiranno sanguinario che si ispira a concezioni regressive deve ricredersi. Nei sondaggi del sentimento popolare e nelle manovre delle forze politiche prevale un pacifismo sospetto. In alcuni casi nobilmente ingenuo e astratto: ispirato da principi sacrosanti, ma senza la capacità di mediarli nella situazione concreta. In altri casi, miserabile schermo per interessi particolari: no alla guerra perché colpisce gli affari o il portafogli. In altri ancora, deriva settaria di un sottostante retroterra ideologico: il bersaglio sono, quasi sempre, le colpe dell’occidente. In generale, questo pacifismo peloso è associato all’odio per l’America, percepita come il vero impero del male, e per la Nato, considerata il braccio armato grazie al quale gli Usa tengono sotto scacco l’Europa.

Sul piano storico e culturale la cosa non deve stupire più di tanto. L’adesione alla Nato nel 1949 fu il capolavoro di Alcide De Gasperi, perseguito con fermezza dopo la tragedia della seconda guerra mondiale e venti anni di dittatura fascista, con l’obiettivo di inserire l’Italia, in modo stabile e a pieno titolo, tra le democrazie occidentali. In stretta alleanza con gli Stati Uniti e con gli alleati che contribuirono a liberare il nostro paese dal giogo del regime. Ma fu un capolavoro molto contrastato dalle culture politiche dell’epoca.

In primo luogo, dalla sinistra ‘frontista’. Il Partito comunista di Palmiro Togliatti e il Partito socialista di Pietro Nenni (che poi virò decisamente e convintamente verso l’atlantismo, in particolare con Bettino Craxi) si opposero in parlamento, prefigurando scenari apocalittici di guerra per il nostro paese. A Montecitorio, Nenni ribadì la scelta della neutralità e Togliatti attribuì la divisione Est- Ovest all’imperialismo americano. Viceversa, grazie alla scelta degasperiana, l’Italia (e l’Europa) ha goduto del periodo di pace, prosperità, libertà e benessere più lungo della sua storia. Proprio sotto l’ombrello difensivo sorretto dagli Usa. Di nuovo oggi, di fronte all’ipotesi di ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia, gli stessi scenari apocalittici (e infondati) sono agitati dagli epigoni stanchi di una sinistra storica sempre più confusa.

In secondo luogo, alla scelta di De Gasperi si oppose ovviamente la destra storica. Difficile d’altra parte che il Movimento sociale italiano, il partito fondato da militanti fascisti e da ex combattenti della Repubblica di Salò potesse accettare un’alleanza militare con quelli che considerava nemici fino al giorno prima. La destra storica fece poi un percorso di conversione all’atlantismo. Soprattutto per la necessità di posizionarsi contro il blocco sovietico. E poi per scarsa affinità con i paesi non allineati, quasi tutti collocati nel cosiddetto Terzo Mondo. Tuttavia, negli ambienti della destra italiana sopravvisse un approccio ‘terzaforzista’ che proiettava nell’Europa il concerto delle patrie anche in funzione antiamericana, con una logica che in qualche modo ha anticipato la riemersione dei sovranismi contemporanei. Oggi, di fronte all’invasione russa, Giorgia Meloni ha il merito di assumere con nettezza una posizione filoatlantista, pur restando all’opposizione del governo Draghi. Ma questa felice intuizione non basta a cancellare del tutto nel suo elettorato i residui cascami di una cultura illiberale e antiamericana che affonda le sue origini nel ventennio.

In terzo luogo, bisogna registrare le resistenze dello stesso mondo cattolico da cui proveniva De Gasperi. A partire dal Vaticano. Contrario all’ingresso nella Nato era, per esempio, il cardinale Alfredo Ottaviani, rigoroso difensore della tradizione e oppositore delle tendenze riformistiche della Chiesa cattolica. Anche Domenico Tardini, sostituto alla segreteria di Stato, riteneva che la neutralità fosse la scelta migliore per l’Italia. A sostegno della posizione atlantista di De Gasperi c’era l’altro sostituto alla segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, che successivamente si espresse anche a favore della Comunità europea di difesa (Ced). Sul piano politico e parlamentare resta agli atti la diffidenza di Giuseppe Dossetti, che votò contro la maggioranza del suo partito (quindi contro De Gasperi) nell’assemblea dei gruppi parlamentari Dc. Ancora oggi nella espressione infelice usata da Papa Francesco (“l’abbaiare della Nato alle porte della Russia”) si legge l’eco della diffidenza di un certo mondo cattolico nei confronti dell’America, aggravato dal peso della cultura sudamericana tradizionalmente ostile agli yankee. Allo stesso modo il dossettismo degli epigoni, con i suoi elementi di organicismo, statalismo e pauperismo, è un potente riflesso condizionato in funzione antiamericana e iperpacifista.

I tre filoni principali della cultura politica italiana – la sinistra postmarxista, un certo cattolicesimo double face (quello radicale anticapitalista e quello tridentino preconciliare), la destra conservatrice – ancora oggi alimentano, ciascuno a suo modo, i pregiudizi antiamericani e antioccidentali. Con il corollario di attrazione fatale per un paese come la Russia, che storicamente resiste in modo coriaceo all’influenza della modernità liberale. Ma l’illusione che la rinuncia alle armi e alla fermezza nei confronti del despota invasore possa essere uno strumento valido per garantire la pace, mette in pericolo la libertà e la democrazia di tutta l’Europa insieme con la sopravvivenza dell’Ucraina. Con il rischio di derive terzaforziste in politica estera che minano la collocazione atlantista ed europeista della Repubblica, impostata nel dopoguerra da Einaudi e De Gasperi e riconfermata oggi con fermezza da Mattarella e Draghi. Chi raccoglie oggi in modo plasticamente evidente la deriva di queste culture sono le due principali formazioni del populismo italiano: la Lega e il M5s. Matteo Salvini, fulminato sulla via di Damasco del pacifismo cattolico, scambierebbe volentieri gli interessi economici del suo elettorato con la resa dell’Ucraina. Giuseppe Conte eredita nel suo ambiguo traccheggiare le originarie pulsioni antioccidentali, venezuelane, filorusse e filocinesi della premiata ditta Grillo-Di Battista. L’elemento unificante di questa diffusa mentalità politica italiana, multiforme nelle origini teoriche, ma univoca negli esiti, è certamente il difetto di formazione liberal-democratica tipica delle culture anglosassoni. Le stesse che hanno garantito la sopravvivenza della democrazia e della libertà in Europa nei passaggi storici cruciali: le due guerre mondiali e la Guerra Fredda. E che oggi alimentano gli stati più impegnati sul piano economico e militare nella difesa dell’Ucraina per impedire il tracimare dell’autoritarismo orientale ai confini dell’Europa.

Eppure, per onestà intellettuale, dobbiamo ammettere che, in Italia, nemmeno la cultura liberale è garanzia di direzione sicura. Basta rileggere le recenti dichiarazioni sulla vicenda ucraina di Carlo Debenedetti, esponente di spicco di una borghesia azionista e imprenditoriale che si arrende senza alcuna resistenza alla deriva del pacifismo peloso e del terzismo illiberale.

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1 Commenti

  1. Marcello Sassoli mercoledì 25 Maggio 2022

    Ma l’aggressione c’è. Militarmente è la Russia che ha tirato il dado. Probabilmente non è stata una mossa avventata del cavallo euroasiatico. Putin sente il fiato della Nato sul collo. E’ un alleanza di ferro la Nato. Se avesse perseguito ideali di pace avrebbe dovuto, l'”Occidente” rafforzare l’ONU e le sue truppe. E’ stato fatto il contrario ed ora ci troviamo in questa situazione di preguerra.

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