di Salvatore Curreri
Testo dell’audizione informale svolta il 5 dicembre 2023 dinanzi l’Ufficio di Presidenza della 1a Commissione permanente (Affari costituzionali) del Senato della Repubblica sui disegni di legge nn. 830 (Renzi) e 935 (Governo) (modifiche costituzionali per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri)
Nel ringraziare codesta Commissione per la prestigiosa opportunità offerta, preferisco evitare di soffermarmi su singole criticità dei due disegni di legge in esame che altri colleghi, ben più autorevoli di me, hanno già evidenziato, per tentare piuttosto di sviluppare alcune considerazioni critiche di carattere generale.
Difatti il disegno di legge Renzi, in coerenza con il modello c.d. neoparlamentare, vigente a livello locale e regionale, qualifica il Presidente del Consiglio eletto “organo di vertice del Governo” e conseguentemente: gli attribuisce la nomina e la revoca dei ministri; lo obbliga a presentarsi entro dieci giorni dalla nomina alle Camera ma non per ottenerne la fiducia ma solo “per illustrare le linee programmatiche”; riserva alla sua competenza specifici atti; soprattutto, in base al rigido modello simul…simul…, ne vieta la sostituzione in corso di legislatura con conseguente scioglimento delle camere in caso di sfiducia, dimissioni, impedimento permanente o morte.
Al contrario, nel disegno di legge del Governo il Presidente del Consiglio, benché eletto direttamente, non ha alcuno dei suddetti poteri per cui è “forte” nell’input ma debole nell’output. Infatti:
Tale considerazione critica può estendersi anche al disegno di legge Renzi che prevede l’obbligo di dimissioni del Governo in caso di doppia votazione contraria su una questione di fiducia, per l’ovvia conseguenza che in tal modo il Governo, ponendo la questione di fiducia, non avrebbe nulla da perdere perché, anche in caso di voto contrario, non sarebbe più tenuto – come accaduto (v. Prodi 1998 e 2008) – a rassegnare le dimissioni. Un evidente squilibrio nel rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo, a tutto vantaggio di quest’ultimo.
Un Presidente del Consiglio dunque apparentemente forte ma di fatto debole, che paradossalmente avrebbe meno poteri rispetto ad altri capi dell’esecutivo benché non eletti direttamente, come il Presidente del governo spagnolo e il Cancelliere tedesco. Esperienze, queste ultime, che dimostrano in modo inequivocabile che un Premier è forte non solo, anzi non tanto perché eletto direttamente dagli elettori, ma perché detiene poteri che gli consentono di governare la sua maggioranza parlamentare. Maggioranza – come è noto – di coalizione e perciò frammentata e spesso rissosa, le cui divisioni interne sono all’origine della cronica instabilità dei nostri esecutivi (65 governi in 75 anni di storia costituzionale).
Si tratta di un argomento non solo falso – dato che si abroga l’articolo 59, secondo comma, Cost. che oggi attribuisce al Presidente della Repubblica la facoltà di nominare cinque senatori a vita – ma frutto di una visione a-sistemica della nostra forma di governo parlamentare. Il sistema parlamentare, infatti, è tale, perché Parlamento, Governo e Presidente della Repubblica si correlano e coordinano tra loro per cui, in tale triangolo, basta cambiare uno dei tre lati perché gli altri due cambino a loro volta; oppure, come in un orologio, basta cambiare una rotella perché l’intero meccanismo ne risenta. Fuor di metafora, mi pare evidente sotto il profilo politico-istituzionale che il rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio eletto direttamente è destinato inevitabilmente a riverberarsi su quello del Presidente della Repubblica, eletto dalle Camere, di fatto privandolo soprattutto di quei poteri di moderazione, di garanzia e di stimolo che hanno modo di esplicarsi soprattutto in situazioni di crisi del sistema politico.
Ciò affermo – si badi – non perché ritenga che il Presidente della Repubblica debba essere il decisore politico ultimo o il “motore principale” del nostro sistema di governo. Anzi la figura del Presidente della Repubblica, complice l’influsso che sul costituente ebbero i poteri del Monarca, trapiantati nell’ordinamento repubblicano (a cominciare dalla nomina del Governo prima della fiducia parlamentare), avrebbe bisogno di una sua maggiore messa a fuoco in coerenza con il suo ruolo di “motore di riserva” in caso di crisi del continuum che lega il Governo alla sua maggioranza parlamentare. Ciò, peraltro, consentirebbe di superare l’ambiguità insita nell’articolo 89 Cost., che vuole tutti gli atti del Presidente della Repubblica soggetti a controfirma per essere validi, finora risolta attraverso la distinzione in via di prassi tra atti formalmente o sostanzialmente presidenziali. Distinzione che forse meriterebbe una sua traduzione formale perché potrebbe un domani essere messa in discussione qualora il Presidente del Consiglio, forte della sua legittimazione elettorale diretta, negasse oppure volesse far maggiormente pesare la sua controfirma su atti che, per la loro natura di garanzia, sono stati finora considerati di esclusiva determinazione del Capo dello Stato, come la nomina dei cinque giudici della Corte costituzionale o il rinvio delle leggi alle Camere.
Da questo punto di vista, quindi, mi pare evidente che il potere di nomina del Presidente della Repubblica debba ridursi ad un ruolo quasi notarile dinanzi ad un risultato elettorale chiaro ed un assetto politico stabile, come dimostrano le brevissime consultazioni che hanno condotto alla nomina di governi indirettamente designati dagli elettori (Berlusconi 1994 e 2008, Meloni 2022). Il che peraltro dimostra come si possa pervenire ai medesimi risultati perseguiti dai due progetti di riforma senza per questo prevedere l’elezione diretta del Presidente del Consiglio quando il sistema politico ne offra le condizioni.
Quel che invece desta perplessità è rinunciare al ruolo essenziale di “neutralità attiva” e di mediazione del Presidente della Repubblica se lo si pone di fronte ad un Presidente del Consiglio che, forte della sua investitura elettorale, potrebbe rivendicare nei suoi confronti la propria supremazia politico-istituzionale.
Tale prospettiva si realizzerebbe in particolare in caso di crisi di governo, dove l’essenziale ruolo maieutico del Presidente della Repubblica di mediazione tra le forze politiche non avrebbe più modo di svolgersi, venendo paralizzato o dal rigido automatismo del simul…simul… previsto dal disegno di legge Renzi, oppure fortemente limitato entro uno schema precostituito imposto dalla legittimazione diretta del Presidente del Consiglio, come prevede la proposta di riforma del Governo. Quest’ultima soluzione, peraltro, solo apparentemente garantirebbe continuità di maggioranza parlamentare, escludendo i vituperati “ribaltoni”. A meno che ci si illuda che per garantirla basti appellarsi alla continuità del programma di governo, alle nostre latitudini quanto di più labile e opinabile ci sia nonché inevitabilmente esposto alle “prevedibili imprevedibilità” di un mondo sempre più globalizzato come l’attuale; oppure si voglia credere che, in un regime che spesso ha fatto del trasformismo la sua cifra caratterizzante, basti per impedire i c.d. ribaltoni il prevedere che il successore del Presidente del Consiglio sia stato eletto in suo collegamento e dichiari di essere il prosecutore del suo programma di governo.
Peraltro una soluzione che paradossalmente finirebbe per alimentare tensioni all’interno della maggioranza di governo da cui il Presidente del Consiglio eletto non potrebbe difendersi e che invece sarebbero tutte a favore del suo successore il quale sarebbe addirittura più forte del Presidente del Consiglio eletto perché la sua caduta determinerebbe l’interruzione anticipata della legislatura.
Limitare così le prerogative del Presidente della Repubblica nella gestione di crisi di governo, evidentemente frutto di una rottura dell’accordo di coalizione che aveva permesso al Presidente del Consiglio di essere eletto, significa impedire una flessibilità del sistema che, indipendentemente dal giudizio politico che si voglia dare delle esperienze passate, non può escludersi possa rilevarsi opportuna, anzi indispensabile nella gestione dei purtroppo sempre più frequenti “cigni neri”.
Questa considerazione vale vieppiù per il disegno di legge Renzi che, ripeto, con coerenza, prevede in caso di sfiducia o dimissioni del Presidente del Consiglio eletto lo scioglimento anticipato delle Camere. Difatti, estendere a livello nazionale il rigido simul simul vigente a livello locale e regionale è frutto di una semplicistica parificazione tra realtà istituzionali diversissime per peso costituzionale, poteri esercitati e compiti svolti.
3. (Sulla inopportuna, parziale e contraddittoria costituzionalizzazione della formula elettorale) – Non mi soffermo sulle criticità cui si espone la scelta di costituzionalizzare un premio di maggioranza che consenta ai candidati e alle liste collegate al Presidente eletto di ottenere il 55% dei seggi in entrambe le Camere. Mi permetto solo di segnalare, come altri:
4. (Sul mancato correlato rafforzamento dei c.d. contro-poteri) – Se è vero che ogni sistema di governo è fatto di pesi e contrappesi che devono mantenersi in equilibrio tra loro, senza sbilanciamenti, non si può non notare come al rafforzamento della figura (in entrata) del Presidente del Consiglio non si accompagna quello dei c.d. contro-poteri.
In questa prospettiva, si dovrebbe affrontare il tema della crisi del Parlamento, già ora succube del potere normativo del Governo, il cui ruolo (e quello dei partiti in esso presenti) andrebbe invece rafforzato sia riconducendo la patologia della decretazione d’urgenza alla fisiologia delle procedure a data certa, sia introducendo quantomeno un riferimento allo statuto dell’opposizione parlamentare, Contrariamente a quel che comunemente si crede, la vera divisione tra i poteri, oggi, non è tra esecutivo e legislativo, ma tra Governo e maggioranza parlamentare da un lato, e opposizione dall’altro .
Brevemente, altre misure in tal senso potrebbero essere:
5. (Sull’abrogazione dei senatori a vita) – Un’ultima notazione sui senatori a vita. Per quanto marginale, la proposta di loro abrogazione è a suo modo coerente con la visione verticale della democrazia in cui alla glorificazione della sovranità popolare corrisponde la riduzione delle forme e dei limiti entro cui essa per Costituzione va esercitata, fosse pure la facoltà per il Presidente della Repubblica d’integrare la rappresentanza elettiva con una che non lo è. Per quanto non c’è dubbio che alcuni senatori a vita non abbiano svolto la loro funzione con quella disciplina ed onore che particolarmente si richiederebbe a chi è stato insignito di questa carica per altissimi meriti, ritengo che non si debba correre il rischio di buttare via il bambino con tutta l’acqua sporca tutto il bambino, rinunciando al prestigioso apporto in termini di competenze ed esperienze, anche umane, che essi hanno offerto e continuano oggi ad offrire al dibattito parlamentare in un’assemblea elettiva. Certo, non si pretende dai senatori a vita di rinunciare al loro “lavoro”, nel nobile senso costituzionale di attività o funzione “che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, di cui l’attività parlamentare, per i loro altissimi meriti, potrebbe giovarsi. Anzi, il senso costituzionale della presenza dei senatori a vita è proprio quello di offrire all’attività parlamentare il loro prezioso contributo in termini di competenza, autorevolezza e di prestigio, che gli deriva proprio dagli altissimi meriti acquisiti nel loro campo.
Da questo punto di vista la motivazione addotta della intervenuta riduzione del numero dei senatori, per quanto certamente proporzionalmente fondata (i cinque senatori a vita rappresentando ieri l’1,58% oggi il 2,5% del totale), si pone in indiretto contrasto con la disposizione che vuole comunque la maggioranza poter contare su 110 senatori sui 200 totali, grazie al previsto premio di maggioranza del 55%. Sotto questo profilo, dunque, si potrebbero sperimentare soluzioni meno drastiche come ad esempio l’inserimento di nomine a vita nella più numerosa Camera dei deputati, oppure la riduzione della durata della carica (a sette o nove anni) con eventuale divieto di nuova nomina così da favorire il ricambio di competenze e – magari – sostituire chi non si è dimostrato all’altezza di tale alto riconoscimento. Mi convince meno la soluzione di sterilizzare i senatori a vita, come se fossero di serie B, privandoli del diritto di voto, specie nelle deliberazioni fiduciarie, sia perché comunque il loro voto nelle altre votazioni avrebbe comunque un effetto politico, sia perché in tal modo il loro apporto sarebbe pressoché simile a quello degli esperti esterni auditi.
Professore in Istituzioni di Diritto pubblico e coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza nella Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche – Libera Università degli Studi di Enna “Kore”