di Giorgio Tonini
Sintesi dell’introduzione di Giorgio Tonini all’Assemblea nazionale di Libertà Eguale su “Le basi culturali, sociali, politiche e programmatiche di una credibile alternativa di governo”
(Orvieto, 25 novembre 2023)
0. Cinque tesi riformiste. Attraverso la “via negationis”
La breve introduzione che vi propongo ha la sola ambizione di avviare la discussione tra noi. Considerata la vastità del tema e la ristrettezza dei tempi, vi propongo di confrontarci su cinque tesi. Formulate facendo leva sulla sintesi piuttosto che sull’analisi. Cinque punti di posizionamento politico, a partire dai due valori fondanti della libertà e dell’uguaglianza. Per rispetto della complessità delle questioni in gioco, vi propongo un approccio “per via negativa”, provando a definire ciò che condividiamo sgombrando il campo da ciò che non possiamo condividere.
1. Non c’è pace senza libertà e democrazia
Sulle orme di Kant, padre della visione liberale delle relazioni internazionali, non si può invocare la pace senza porre la questione della democrazia, nella sua duplice dimensione di stato di diritto e suffragio universale. È la democrazia così intesa il fondamento più solido della pace. E viceversa: la negazione della democrazia è la principale causa profonda della guerra. Sia la questione russo-ucraina, sia quella israelo-palestinese rinviano del resto ad una irrisolta questione di democrazia: in Russia, come nel mondo arabo-islamico. E il nuovo bipolarismo mondiale non oppone più capitalismo e socialismo, ma capitalismo democratico-liberale e capitalismo illiberale-autoritario. In questo contesto, le democrazie, che pure ripudiano la guerra “di offesa alla libertà”, e cercano quindi la convivenza e il compromesso pacifici, mentre promuovono la democrazia “per contagio”, devono anche potersi e sapersi difendere in modo unitario, solidale, “federato”.
2. Non c’è democrazia senza uguaglianza
Il fronte forse più insidioso per le democrazie è quello interno: la caduta del consenso popolare nei confronti delle istituzioni liberal-democratiche, messe a dura prova dal populismo e dal sovranismo. La manifestazione forse più preoccupante di questo malessere è la crisi della destra liberale e moderata, sostituita, negli USA soprattutto, ma anche in Europa, da diverse espressioni di una destra radicale e illiberale. D’altra parte, anche la sinistra riformista deve fare i conti ormai da anni con un grave deficit di consenso, a causa della crescente difficoltà a riproporre il paradigma socialdemocratico, messo in discussione dalla globalizzazione, dalla rivoluzione tecnologica, dalla crisi demografica. Espressione sintetica di questi radicali mutamenti, è la spettacolare crescita delle disuguaglianze interne ai paesi a sviluppo maturo, che procede di pari passo con il non meno spettacolare riequilibrio delle diseguaglianze tra questi paesi e quelli a sviluppo recente. Eloquenti al riguardo gli ultimi risultati della ricerca di Branko Milanovic, con la netta inversione di tendenza, attorno all’anno 2000, nella crescita delle diseguaglianze Nord-Sud, al quale fa riscontro negativo l’acutizzarsi della polarizzazione sociale interna ai paesi sviluppati. Il futuro della democrazia, compresa la sua capacità di competere con successo sul piano globale, dipende quindi in buona misura dalla possibilità di mettere in campo, in parallelo alla grande convergenza globale, una nuova strategia di grande convergenza nelle società sviluppate. Ove l’accento va posto sul “nuova”, perché non potrà trattarsi della mera riproposizione delle soluzioni messe in campo nel secolo scorso: nazionali e in deficit spending.
3. Non c’è speranza senza Europa
La dimensione almeno europea è dunque imprescindibile, sia per il “contagio” democratico e per la conseguente difesa delle società democratiche dalle minacce esterne (con la tanto ardua quanto indispensabile costruzione di una vera difesa europea, nell’ambito NATO, con l’inevitabile riproporsi della questione della sovranità sovranazionale), sia per la costruzione di un sentiero percorribile di lotta alle disuguaglianze, verso nuove forme di grande convergenza all’interno delle nostre società. Su quest’ultimo terreno, “Next Generation EU” ha rappresentato una svolta storica. Superando il rigido schema ordoliberista, che fino alla crisi del Covid era parso invincibile e insuperabile, l’Europa si è data una politica economica comune di orientamento neo-keynesiano, che per la prima volta ha messo in campo strumenti di solidarietà, compresa una significativa mutualizzazione del nuovo debito pubblico. Questa svolta va consolidata nella revisione del Patto di stabilità e crescita: una sfida che deve vedere l’Italia protagonista nel gruppo trainante, di ispirazione federalista, come lo è stata nel lancio del NGEU, e non attardata in una sterile e solitaria posizione di riottosa retroguardia sovranista. Su questo terreno un’opposizione riformista ed europeista al governo Meloni può svolgere una funzione storica decisiva e potenzialmente vincente.
4. Non si quadra il cerchio senza riforme
NGEU e PNRR: con queste sue sigle si manifesta una politica economica espansiva che scommette sulla possibilità di “quadrare il cerchio” tra andamento del debito e del prodotto, innalzando in modo strutturale il tasso di crescita potenziale della economia europea (e italiana), rendendo in tal modo sostenibile anche il debito pubblico aggiuntivo, attraverso un uso delle risorse in deficit finalizzato a sostenere un ambizioso programma di investimenti e per creare le condizioni di consenso sulle riforme. Una politica orientata agli investimenti e alle riforme strutturali è una politica che si libera dalla “tirannia dello shortermismo” (Padoa Schioppa) e conquista la capacità di progettare sul medio termine. Per questo, almeno dalla stagione referendaria 1991-93, passando per la Tesi 1 dell’Ulivo, fino alla fondazione del Pd, i riformisti italiani hanno sempre affermato la necessità e urgenza di riformare la seconda parte della Costituzione, rivedendo la forma di stato in senso federale e autonomistico (anche destinando a questa essenziale funzione una delle due Camere) e rivedendo la forma di governo sulla base del modello del premierato: governo del Primo Ministro, indicato dal corpo elettorale attraverso una legge maggioritaria basata sui collegi uninominali e il doppio turno; eletto dal Parlamento (dall’unica Camera politica) e revocabile solo con la sfiducia costruttiva; munito del potere di proposta al presidente della Repubblica di nomina e revoca dei ministri, nonché di scioglimento delle Camere. Su questo terreno andrebbe portato il confronto in Parlamento con la proposta della maggioranza, nella formulazione attuale sbagliata e inaccettabile, e ove la maggioranza si negasse al confronto, dinanzi al corpo elettorale.
5. Non si fanno riforme senza unità dei riformisti
Al contrario degli altri paesi europei, l’Italia non ha mai conosciuto un vero ciclo politico riformista, ma solo stagioni riformatrici brevi ed effimere. Anche perché l’Italia non ha ancora potuto confrontarsi con una vera proposta di unità dei riformisti. Il compito che il Pd si era assegnato è ancora lontano dalla sua realizzazione. Ed è a questo obiettivo storico che l’Associazione intende offrire il suo apporto di riflessione culturale. L’articolazione territoriale del voto, per certi versi inedita, con la caduta verticale dei livelli di consenso al centrosinistra nel Mezzogiorno, il rapido declino nelle “regioni rosse” e invece la resilienza-ripresa nelle aree urbane del Nord, suggerisce anche un possibile percorso di rilancio di una proposta al Paese, capace di saldare la protezione dal bisogno con la promozione del merito.
Consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Componente della Presidenza di Libertà Eguale.
Senatore dal 2001 al 2018, è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.
E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.
Tra gli estensori del “Manifesto per il Pd”, durante la segreteria di Walter Veltroni è stato responsabile economico e poi della formazione del partito.