di Vittorio Ferla
Dopo le polemiche che nei giorni scorsi hanno visto protagonista l’Anpi, resta aperta la domanda: quali sono le bandiere da portare alla festa della Liberazione del 25 aprile? La ricorrenza, carica di significati e di storia, infatti, cade proprio durante l’invasione russa dell’Ucraina. Il che non può non lasciare un segno profondo.
La prima bandiera a sventolare sarà, ovviamente, il tricolore italiano. Il 25 aprile, infatti, si festeggia la liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’occupazione del paese da parte della Germania nazista. Il 25 aprile è dunque l’anniversario della Resistenza, un giorno dedicato all’impegno dei partigiani di ogni fronte che, a partire dal 1943, contribuirono alla liberazione del paese, insieme con le truppe alleate. Alla Resistenza e alla lotta di liberazione – che sono la base della nostra democrazia e che hanno ispirato la scrittura della Costituzione – parteciparono operai, contadini e giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò che portarono nell’esercito partigiano centinaia di migliaia di combattenti in armi. Bisogna ricordare, infatti, che si trattò di una Resistenza armata e che da lì prende spunto quell’articolo 52 della Costituzione che recita: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Una difesa che contempla pure l’uso delle armi.
La seconda bandiera che bisognerà sventolare nel giorno della liberazione è la bandiera gialloblu dell’Ucraina. Il motivo è semplice. “Tra la nostra Resistenza e quella dell’Ucraina non ci sono differenze. Un popolo invaso ha tutto il diritto di difendersi e va aiutato in questa impresa coraggiosa, anche con le armi”, ha ricordato nei giorni scorsi Maurizio Verona, il sindaco di Sant’Anna di Stazzema, la Mariupol d’Italia, la cittadina dove il 12 agosto del 1944 le SS massacrarono in meno di tre ore 560 civili, donne incinte e bambini. Come ha spiegato il sindaco: “noi condanniamo il fascismo e il nazismo. Ma questa condanna non può essere soltanto retorica. Non possono restare frasi da comizio e da palco. Come si fa a non vedere che Putin, in Ucraina, sta facendo la stessa cosa che i nazisti facevano in Italia nel ’44? Non penso ci possano essere né ‘sé’ né ‘ma’ per giustificare dittature che compiono certi crimini contro la popolazione civile. Ma stiamo scherzando?”. È evidente che la storia non si ripete mai perfettamente uguale e che le due vicende non sono identiche. Ma la rimozione degli elementi comuni alle due resistenze è inaccettabile. E oggi i resistenti ucraini combattono per gli stessi ideali di democrazia e libertà che ispirarono i partigiani italiani.
La terza bandiera è quella blu con le dodici stelle dell’Unione europea. Il 25 aprile del 1945, per l’Italia comincia pure l’impegno per la costruzione della casa comune europea. Dopo la seconda guerra mondiale, l’integrazione trai paesi europei apparve come un antidoto ai nazionalismi che avevano devastato il continente. Certo, bisogna aspettare il 1951 perché sei nazioni decidessero di creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, in seguito riconosciuta come il primo passo verso la federazione dell’Europa. Ma le radici di questo progetto unitario risiedono proprio nelle lotte di liberazione che videro impegnati italiani, inglesi, francesi, belgi e via elencando contro l’autoritarismo nazifascista. E tra i leader che oggi consideriamo tra i padri fondatori dell’Europa c’è anche il capo di governo italiano dell’epoca, Alcide De Gasperi. Dopo il crollo del Muro di Berlino, aderiscono al processo di integrazione anche i paesi dell’Europa orientale: un passaggio che è frutto della liberazione dal giogo del comunismo sovietico. Idealmente, le due parti dell’Europa possono oggi festeggiare una liberazione comune dall’unico totalitarismo manifestatosi sotto diverse facce. In questi 70 anni, la casa comune europea ha garantito pace, prosperità, libertà e progresso, migliorando le condizioni di vita dei cittadini degli stati membri. Per affrontare le sfide globali del nostro tempo, l’Unione Europea – come si chiama la comunità dal Trattato di Maastricht del 1993 – è sempre più necessaria. La Festa della Liberazione deve essere il giorno dell’impegno per rafforzare l’unità dell’Europa, messa a dura prova dalla minaccia proveniente oggi dal dispotismo neonazionalista e imperialista russo. Solo così potremo garantire un futuro di libertà, di sicurezza, di pace e di giustizia a noi stessi e alle generazioni future.
La quarta bandiera è quella Nato, l’alleanza atlantica, con una rosa dei venti di colore bianco su campo blu. A dispetto di tutte le polemiche, la motivazione è semplice: la Nato è l’erede, ideale e concreta, degli eserciti Alleati che hanno liberato l’Italia e l’Europa. La Liberazione si conclude il 25 aprile del 1945, certo. Ma inizia il 9 luglio del 1943 con lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Da lì i soldati americani e quelli del Commonwealth (di nazionalità inglese, canadese, australiana, neozelandese, indiana e sudafricana) risalgono verso nord per liberare il nostro paese dalla dittatura e dalla guerra. A proporre per primo – e correttamente – l’uso di questa bandiera – scatenando la reazione settaria del presidente dell’Anpi – è stato il direttore del Museo della Brigata ebraica di Milano Davide Romano. Secondo Romano, chi non riconosce la democrazia liberale come valore “dimentica i tantissimi giovani che sono venuti a morire per difendere la nostra democrazia e che sono sepolti nei cimiteri alleati. Un’Anpi equidistante fra la democrazia e la dittatura distrugge un patrimonio culturale enorme. Una politica settaria che non ha niente a che vedere con gli ideali di democrazia e libertà della parte migliore del 25 aprile”. Insomma: la democrazia liberale (difesa dagli alleati nella Nato) è la base delle nostre istituzioni e della nostra storia, mentre l’odio ideologico e ottuso contro Usa e Occidente ne costituiscono il tradimento.
La quinta e ultima bandiera è quella della pace, con le strisce dell’arcobaleno. “Tutti ci auguriamo che il dialogo riprenda il suo cammino e che ci sia a un cessate il fuoco immediato. Tutti siamo per la diplomazia”, ha chiarito ancora il sindaco di Stazzema. Come non essere d’accordo? “Ma questo non può significare resa e sottomissione per gli ucraini”, ha aggiunto il sindaco. “Sono il sindaco di un borgo martire. Qui a Sant’Anna, nel 2000, fu istituito il parco nazionale della pace. Noi siamo per la pace, con tutte le nostre forze. Ma di fronte all’invasore, di fronte ai massacratori, di fronte alla violenza cieca, si deve resistere”. Come dimostra la storia delle brigate internazionali impegnate in Spagna, quella dei partigiani italiani nella seconda guerra mondiale e, oggi, quella dei resistenti ucraini, la pace senza libertà è schiavitù. Ecco perché fornire le armi al governo di Kiev è giusto, legittimo e doveroso. La pace è un obiettivo. Ma non è sinonimo di resa al tiranno sanguinario. Perché non c’è pace senza giustizia. La festa della Liberazione ce lo ricorda per sempre.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).