di Ranieri Bizzarri
A poco più di un anno dalla diffusione della pandemia nel nostro Paese, lo scenario sociale (e anche politico) è profondamente cambiato. Ci vorranno anni per capire le conseguenze di una vicenda che ha toccato ognuno di noi nel proprio vissuto profondo. Tuttavia, credo sia utile fare alcune preliminari osservazioni su come SARS-CoV-2 (il nome tecnico del coronavirus responsabile della pandemia di COVID-19) ha modificato alcune delle nostre (passate) consapevolezze.
1. Il primo cambio drastico di paradigma gira intorno ad una parola che fino a 12 mesi fa era usata da specialisti: zoonosi. La zoonosi è tecnicamente una malattia, tipicamente virale, che fa un salto da una specie animale all’uomo. Nel 2018, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva messo in guardia l’intera comunità mondiale riguardo la possibile apparizione di un pericoloso “Patogeno X” per via zoonotica in tempi brevi. Mai profezia scientifica fu più vera, ed infatti non era una profezia ma solo il frutto di un ragionamento. Merita riportare le parole con cui scienziati dell’OMS descrivevano sulla prestigiosa rivista Lancet le condizioni possibili perché il processo avvenisse: “La trasmissione zoonotica avviene spesso dove le attività umane provocano profondi cambiamenti antropogenici in regioni caratterizzate ancora da un contesto di vita biologica selvaggia e molto differenziata. Molti fattori di rischio, tra cui lo scarso controllo sulla catena della produzione alimentare e una grande densità di popolazione possono trasformare piccoli focolai di zoonosi in una pandemia con conseguenze devastanti”.
Queste parole si sono avverate solo due anni dopo, a partire da un virus che per zoonosi è apparso a Wuhan, una megalopoli cinese immersa in uno scenario naturale ancora largamente selvaggio ed ignoto dal punto di vista biologico. SARS-CoV-2 ci ha dimostrato cosa può accadere quando i cambiamenti antropogenici sono condotti in modo scarsamente consapevole, seguendo l’approccio classico di trasformare la natura a vantaggio dell’uomo senza rifletterci sopra. Non si può, e non si deve in poche righe farne un manifesto per un futuro approccio ecologico all’antropizzazione di un territorio, o magari al riscaldamento globale. Ma dovremmo almeno trarne una sensata consapevolezza che gli organismi viventi (inclusi pipistrelli e pangolini) non stanno intorno a noi per allietarci o sfamarci secondo i nostri capricciosi voleri, ma sono parte di un’ecosfera dinamica dove noi esseri umani siamo solo una delle specie interagenti. L’alternativa possono essere cicliche zoonosi, e conseguentemente cicliche pandemie; in un contesto più ampio, cicliche crisi ambientali.
2. Il secondo cambio di paradigma è collegato alla trasmissibilità per vie aerea di questo virus. Come ben si sa, non si ferma il vento con le mani, e COVID-19 si è rapidamente diffuso su scala globale. Questo capita anche alle classiche sindromi influenzali, con la significativa differenza che COVID-19 è assai più mortale. In buona sostanza, il mondo è stato ristretto dal punto di vista geografico dalla pandemia, ed abbiamo amaramente imparato che alcune delle tragedie che guardiamo al telegiornale con distacco possono in poche ore riguardare anche noi. Questo è un punto cruciale: abbiamo per anni discusso una globalizzazione di tipo economico o di tipo tecnico, soppesandone in modo più o meno ragionato pregi e difetti e la nostra capacità di modificarla. Ma è bastata una macchinina molecolare con dimensione di un centomillesimo di centimetro (ci tornerò) per farci vedere un altro tipo di globalizzazione, che richiede risposte assai diverse e molto più rapide e incisive. “Nostra patria è il mondo intero/nostra legge la libertà” diceva un canto anarchico, che potrebbe essere benissimo il manifesto del coronavirus.
A sfide globali occorre rispondere con una governance su scala globale, o almeno con estese governance regionali. L’Europa, la cui unione politica è il sogno di più di una generazione, ha sinora balbettato e le è mancata una reale governance capace di affrontare la sfida del coronavirus; un approccio che non promette nulla di buono per il futuro. Gli Stati Uniti, dopo l’infausta parentesi Trump, mostrano chiaramente i vantaggi di un’autorità e di norme che abbracciano un’ampia scala geografica. Sarebbe auspicabile che la pandemia del virus generasse la matura consapevolezza di una “pandemia” della governance a livello Europeo e, per certi versi, mondiale.
3. Il terzo punto che mi sembra utile sottolineare riveste la risposta alla pandemia dei singoli paesi ed in particolare del nostro. Potremmo riempire pagine su quello che si è fatto e quello che si poteva fare; e il mutato scenario politico con l’avvento del Governo Draghi è una diretta conseguenza della situazione e degli errori compiuti. Credo però che due elementi siano molto più significativi di altri. Il primo richiama l’assenza di un coerente assetto federale del nostro Paese, che ha come conseguenza una risposta antinomica alle emergenze da parte di frazioni del suo territorio abbastanza piccole da essere poco rilevanti sulla scala della diffusione del rischio. L’inefficacia del modello “federale” di gestione della Sanità, visibile nella babele di sistemi di test diagnostici, numero di vaccinazioni, gestione informatica dei dati pandemici, trova il suo drammatico contrappasso nell’assenza – in molte regioni – di un reale sistema microterritoriale di assistenza e controllo. È auspicabile che i futuri fondi di NGEU dedicati alla Sanità affrontino questo problema, ma è evidente che occorre mettere mano al disegno “federale” del Paese, non dimenticando che certe sfide hanno senso solo su scale geopolitiche ben maggiori di una singola Nazione.
Il secondo elemento è il rapporto complicato tra livello politico e scientifico-tecnico che si è stabilito. A mio avviso i comitati di consulenza scientifica hanno sovente interloquito con una politica debole senza prospettare modelli e scenari, ma indicando modalità operative assai dettagliate. In parte questo è il frutto nefasto della fusione tra Protezione Civile (che ovviamente ha approccio operativo) e livello scientifico operata a vari livelli dal Governo Conte. In sostanza, sinora le raccomandazioni sono state più simili a quelle della giurisprudenza sulla sicurezza nei luoghi di lavoro che ad una coerente visione di lotta alla pandemia. Nel dettaglio della normazione su ogni individuo (vedere due congiunti al giorno, consumare un caffè da asporto almeno a qualche metro dal locale dove si è acquistato) si sono lentamente persi:
a) il contesto globale, con grande felicità della politica che ha potuto operare micro-scelte a medio-basso impatto di consenso; b) la mutabilità dinamica del contesto, come ad esempio i cambi di colore che sovente fotografano una realtà ormai vecchia di settimane. Anche qui c’è da sperare che il governo Draghi operi, silenziosamente, un cambio di passo (che peraltro si comincia a vedere).
4. Il quarto punto riguarda i vaccini. Qui c’è poco da dire: il trionfo della sete di conoscenza degli esseri umani, che comunemente chiamiamo Scienza, non potrebbe essere più totale. In 11 mesi sono stati sviluppati 4 diversi vaccini molto efficaci nei confronti di una malattia mortale. Ed altri sono in arrivo. Il nostro orgoglio di far parte della specie umana non potrebbe essere maggiore. Ma anche qui due lezioni sembrano indubitabili. La prima è che non esiste attività umana, anche la più straordinaria, slegata dalla ambizione degli individui a migliorare le proprie condizioni. Come diceva Margaret Thatcher, un uomo può scalare l’Everest per la propria ambizione, ma giunto in cima vi pianterà la bandiera del proprio Paese.
In sostanza, senza il mercato, senza la possibilità che questa sfida sia raccolta da grandi operatori come le aziende farmaceutiche, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Il che non significa che la collettività NON debba difendere le proprie prerogative sociali, tutt’altro. Ma significa che prima di discutere di liberalizzare i brevetti, o impedire le distorsioni del mercato, occorre che ci siano brevetti e mercato. Troppo spesso la sinistra italiana (e europea) si scaglia contro l’amoralità delle grandi companies, dimenticando che non è entrando in maniera scomposta nelle dinamiche del mercato che si possono trovare soluzioni efficaci per la collettività.
L’esempio americano riguardo ai vaccini coglie magnificamente il problema, e mi permette di discutere il secondo aspetto. Il governo americano ha attivamente partecipato allo sviluppo di uno dei vaccini, con risorse straordinarie e attraverso centri di ricerca pubblici. In questo modo, Moderna e Johnson & Johnson (e in parte anche Pfizer) potranno sì godere di legittimi (ed ampi) profitti, ma la ricaduta sociale dell’operazione non verrà mai meno. Questa strada è stata intrapresa anche in UK (Università di Oxford), un’altra democrazia liberale dove l’aspetto solidaristico e redistributivo non è mai ideologicamente prevalente rispetto all’idea di sviluppo.
In Europa si è balbettato, legati forse più a scelte nazionalistiche (vedi appoggio a Sanofi da parte della Francia) che al reale interesse dei cittadini europei di avere velocemente vaccini sicuri. Il Vecchio Continente si è rapidamente trasformato in un mero acquirente, rinunciando a sviluppare in proprio la tecnologia necessaria a farmaci salvavita. Due elementi erano e rimangono assenti:
a) un coerente sistema europeo della ricerca sanitaria (una specie di NIH europeo che in molti, tra cui io, auspichiamo), b) l’indecisione e la diffidenza riguardo alla politica di sviluppo industriale dei vaccini stessi. Anche in questo caso si spera che la consapevolezza aumenti e che si scelgano queste strade per favorire socialmente i cittadini.
5. L’ultimo punto è forse il meno visibile, ma non il meno importante. Non so quanti lettori si rendano conto che il SARS-CoV-2 non è che una sofisticatissima macchinina (1 centomillesimo di centimetro!) molecolare, priva di sentimenti, ma perfettamente adattata tramite selezione naturale al suo scopo: riprodursi e diffondersi. Attraverso la mutabilità, la trasmissione dei caratteri alla progenie e l’effetto selettivo dell’ambiente, tutte le specie (incluso noi) evolvono in scale di tempi che possono riguardare centinaia di milioni di anni. È merito di Darwin e Wallace averlo stabilito in modo chiaro nella seconda metà del XIX secolo, e la nostra società da quel momento – consapevole o meno – non è stata più la stessa di fronte alla forza dell’ingegneria di Madre Natura codificata nell’algoritmo della selezione naturale. Adesso il virus ci presenta davanti una selezione su scala dei tempi delle settimane: l’avvento di varianti più trasmissibili o meno raggiungibili dal vaccino ne è una prova evidente.
Ma la selezione naturale, e l’evoluzione che ne è conseguente, ha anche una dimensione culturale e financo politica, con solide radici di sinistra. Lo stesso Marx lesse avidamente Darwin, e Turati si definiva un evoluzionista. Ovvero, le buone idee (che qualcuno chiama “memi” come contraltare dei “geni”) che forniscono un vantaggio selettivo agli individui della nostra specie ci consentono di sopravvivere meglio e di evolverci socialmente. Ne sono esempi le idee scientifiche, il concetto di comunità e lo stato sociale. Dobbiamo rispettare il progresso in senso evolutivo e – anche nell’agire politico – intercettare quei “memi” che producono efficace avanzamento della società. Generare continue “varianti riformiste” in grado di affermarsi è connaturato alla nostra natura di esseri viventi. Tutti i punti richiamati sinora rappresentano altrettanti embrioni di strategie per un futuro migliore per la società. In questo, SARS-CoV-2 ci ha riportato alla realtà vera dell’esistenza; ed è l’unica cosa per cui alla fine, ma solo alla fine, potremo ringraziarlo.
Laureato e dottorato in Chimica, è Professore associato di Biochimica all’Università di Pisa. E’ stato Research Fellow in USA, Francia e Olanda. Si occupa di processi biochimici alla base dello sviluppo dei tumori. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale