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Le leggi? Una volta le faceva il Parlamento…

Mauro Zampini sabato 30 Maggio 2020
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di Mauro Zampini

 

Il nostro sistema si trova, non da oggi, di fronte ad una situazione di disordine istituzionale dovuto all’azione dei partiti.

In realtà, succede una cosa curiosa, da un lato rassicurante, dall’altro inquietante. Chi cercasse nella nostra Costituzione tracce visibili di quelli che si possono definire tranquillamente atti di vandalismo istituzionale, non trova nulla di formalmente cambiato. Ad esempio, assistiamo ogni giorno o quasi, da oltre una ventina d’anni, a leggi approvate senza il minimo concorso delle Camere, che pure detengono in via esclusiva la funzione legislativa. Con il concorso del Governo, interlocutore principale, non surrogate dal Governo. Tutto viene preparato e confezionato al di fuori dei palazzi dei due rami del parlamento, Montecitorio e Madama, senza che in questi palazzi se ne sappia nulla.

Ma l’articolo 72 della Costituzione, quello che descrive passo passo il procedimento di approvazione delle leggi, risplende intatto, in tutta la sua inequivocabile e nitida linearità. Come altri articoli, sul tema gli articoli 49 e 67 della Costituzione, per esempio, monumenti alla memoria di un parlamento vitale. I progetti di legge, presentati dal governo o dai singoli parlamentari (e, teoricamente da cinquantamila cittadini, praticamente mai decollato, nemmeno ad opera del teorici della democrazia diretta, i cinque stelle),  devono essere esaminati in ogni camera dalla commissione competente per materia; poi discussi dalle assemblee di entrambe le camere, approvati articolo per articolo, e quindi votati in identico testo da entrambe le camere. Il testo arriva direttamente da palazzo Chigi, si compone di un unico articolo, perché alle camere si concede un voto. Per essere unico, l’articolo deve essere di centinaia di commi , e il voto delle camere solo un voto di fiducia al governo. Come dire, lo ha fatto il governo, quindi mi fido, in pratica. E’ solo un esempio, di come si possa manomettere, dismettere un obbligo costituzionale, senza toccare la Costituzione, che rimane intatta, pronta per l’uso.

Lo abbiamo poco sopra definito, questo modo di procedere, rassicurante ed inquietante ad un tempo. Il misfatto è commesso, nel caso delle leggi addirittura un atto vandalico, in tutta la sua sostanziale incostituzionalità, ma non restano tracce scritte, non ci sono danni evidenti. È questo che rende difficile la ricerca del colpevole, o almeno di un unico colpevole: ci devono essere complicità, evidenti o nascoste. Nel caso del procedimento legislativo, che è un caso di sottrazione di fatto di funzioni, di esproprio senza alcuna utilità pubblica, questa pratica ha dato origine ad un curioso gioco di ruolo: l’opposizione di turno esprime una protesta di maniera, dentro limiti prestabiliti e misurati, e aspetta il proprio turno. A consuntivo, si può parlare di una specie di ripartizione dl bottino, e i conti tornano. Poi, capita che a volte si esageri, come nel procedimento di approvazione della penultima legge di stabilità, quella del 2019, quando le commissioni lavorarono praticamente come quando le leggi si facevano nel modo costituzionalmente corretto. Il testo del governo, che rendeva tutto quel lavoro utile solo ai fini statistici della quantità del lavoro parlamentare, arrivò talmente tardi che lo stesso capo dello Stato parlò di una “compressione” del Parlamento. Chi conosce la misura del presidente della Repubblica, capisce che la misura è colma. E lo è, non solo in questo caso.

Sostenere che la Costituzione è rimasta intatta, è una verità solo formale. Nella realtà, dal 1994 ha inizio un progressivo lavorio di delegittimazione del parlamento, legato ai metodi del reclutamento del personale politico e alla progressiva riduzione di autonomia dello stesso; successivamente, la delegittimazione colpisce in pieno la figura del parlamentare. Ne abbiamo parlato, sottolineando come il colpo finale è venuto con l’acquiescenza diffusa della comunità politica alle (chiamiamole) teorie costituzionali del sopravvenuto e arrembante Movimento Cinque Stelle, divenuto il primo partito; e alle sue proposte dirette a collocare la funzione di rappresentanza di deputati e senatori al livello di prestazioni meramente quantitative, senza alcun pregio intellettuale, di studio, creativo. Lo stesso successo clamoroso del movimento cosiddetto grillino è la conseguenza di un diffuso rigetto da parte degli elettori di una politica in cui si avverte la mancanza di una base comune su cui avvitare i programmi di governo.

In sostanza, nel nostro sistema si può a buon titolo parlare di seconda e ora forse di terza Repubblica, senza che la seconda parte della costituzione sia stata toccata, riformata. A costituzione invariata. Le modifiche, profonde, sono dovute all’allontanamento dei partiti dalla traccia della Costituzione. Un caso con pochi precedenti tra le democrazie, ma che forse oggi tende a potersi ripetere in sistemi ben più forti del nostro, come gli Stati Uniti, o in democrazie oramai pericolanti come il Brasile. L’unico tentativo, serio, di varare una reale riforma del sistema è quello fatto dalla commissione bicamerale presieduta da D’Alema, nella legislatura del primo governo Prodi, ma naufragò su uno dei temi bollenti di questo periodo, il rapporto tra politica e poteri della magistratura. Le due riforme costituzionali approvate dalle camere, una del centrodestra tra il 2001 e il 2005, e quella di Matteo Renzi, furono bocciate dagli elettori nel referendum di conferma.

In altri casi, istituti di fatto di creazione politica convivono in potenziale conflitto con le forme della Costituzione. In tema di formazione dei governi, ad esempio, i poteri del capo dello Stato e del parlamento nel procedimento di formazione del governo sembrano minacciati da una concezione neopresidenzialista basata sull’indicazione nella scheda elettorale del nome del candidato alla guida del governo. E corroborata, in termini di coerenza metodologica, dalle leggi che regolano l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione. Ma i sistemi elettorali non si diffondono per contagio, e quindi le proteste di piazza contro governi costituzionalmente perfetti come quello in carica, o il precedente (mai contestato dal punto di vista della legittimità), creano pericolosa confusione costituzionale negli elettori. Soprattutto quando sembrano contestare (in realtà contestano in modo criptato) l’operato costituzionale, del Capo dello Stato, arrivando a prospettare l’ingiuria di un alto tradimento per avere rigettato la proposta di nomina di un ministro fatta dal capo del governo.

La suggestione dell’elezione diretta del governo è questione troppo seria per lasciarla in balia di giochi politici o di partito, e ancor più per alimentare margini di dubbio sui comportamenti di chi ha il compito di difendere la costituzione. O, domani, margini per ambigue manovre da parte di chi, in quel ruolo, non avesse il necessario rigore.

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