di Giovanni Cominelli
L’invasione sanguinosa e feroce dell’Ucraina da parte di Putin opera una cesura potente e inattesa nel continuum delle nostre culture, abitudini e politiche pre-24 febbraio.
Il Covid ce ne aveva già inflitto una. “Svolta epocale” avevano scritto in molti, con fondate ragioni. Ma la guerra ucraina è, se possibile, ancora “più” epocale.
Papa Francesco aveva parlato, profeticamente, di terza guerra mondiale a tappe. A quanto sembra, in questa prima parte del Terzo Millennio le svolte arrivano come le ondate, una sopra l’altra. Serviranno tempo e intelligenza delle cose per comprendere il tempo che stiamo vivendo.
Intanto, quali effetti è destinata a produrre l’epocalità degli eventi ucraini sul nostro Paese? Giacché la guerra ucraina non è un evento estraneo, da fare oggetto dei talk show e delle nostre buone emozioni umanitarie. Ci siamo in mezzo e dentro. Questa coscienza ci obbliga a cambiamenti di approccio alla realtà.
In Italia, si avvicinano le elezioni del 2023. Come arriviamo a questo appuntamento? Il Governo Draghi si sta aprendo la strada in mezzo alla giungla amazzonica degli interessi confliggenti nella società civile e nella società politica, esasperati dal Covid e dalle conseguenze della guerra. Dalla parte più conservatrice e pigra della società civile e della politica si è levata la domanda di rallentare o fermare il cammino delle riforme: il Covid e la guerra funzionano come alibi. Alla fine, è tutto ciò che si nasconde sotto la parola d’ordine di molto pacifismo di vario segno: “no alla guerra” non è la richiesta della pace, ma del “lasciateci in pace!”.
La guerra sta provocando non solo migliaia di vittime e distruzioni materiali. Essa comporta una distruzione non creativa e catastrofica di ricchezza. Nella quale anche noi Europei e Italiani siamo coinvolti, perché siamo parte della guerra. L’alternativa, d’altronde, sarebbe quella di lasciare a Putin un pezzo di Europa.
Le sanzioni hanno un costo anche per noi: tutto il comparto esportazioni/importazioni è pesantemente toccato e perciò i prezzi e perciò le nostre tasche. Sganciarci dal gas russo e costruire una nostra autonomia energetica comporta una revisione delle scelte energetiche e delle politiche della transizione ecologica. Per compensare questi shock non basterà più ricorrere alla finanza allegra. Il debito pubblico sta diventando enorme e come tale viene fatalmente scaricato sul futuro del Paese, cioè sulle generazioni più giovani in termini di diminuzione delle opportunità di vita e di riduzione del Welfare. I giovani in rottura passiva rispetto alle generazioni adulte sono ormai un continente sempre più irraggiungibile dai partiti e dalla politica.
La politica praticata e rivendicata di spesa pubblica assistenzialistica da vasti settori sociali e politici ha/deve avere i giorni contati. Si tratta di invertire queste politiche e rifondare una politica di sviluppo. Le infrastrutture del quale sono, da sempre, la ricerca scientifica e tecnologica, le politiche educative e formative, la concorrenza, una Pubblica amministrazione efficiente, una giustizia giusta.
Ma l’infrastruttura decisiva, anzi il motore dello sviluppo, è il governo. Governi deboli, instabili, passeggeri generano il corporativismo sociale – perché i gruppi di interesse si autodifendono con le unghie e con i denti contro ogni altro, in base al principio: “a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia” – il corporativismo politico – perché i partiti si riducono a sindacati degli interessi – e la partitizzazione/
Insomma: governi deboli, Paese in declino. Un governo instabile non pesa per nulla a livello europeo e internazionale, in un momento in cui la coscienza europeista di milioni di europei ha già fatto un salto in avanti e sta costringendo i governanti a costruire nuove istituzioni di governance, a partire dall’Esercito europeo.
Ora, gli scenari politico-partitici 2022-23 dell’Italia annunciano instabilità, aggravata dalle rapide e obbligate metamorfosi e giravolte, cui la guerra sta costringendo tuti i partiti.
Ne consegue che le riforme istituzionali, che la sconfitta del referendum del 2016 sembrava aver messo definitivamente in soffitta, tornano oggi come urgenza primaria, sempre che si voglia garantire al Paese delle chance per tornare allo sviluppo e per contare nel processo di costruzione di nuovo ordine europeo e mondiale. Nell’attuale quadro europeo, l’Italia appare un Paese instabile, al quale solo il prestigio personale di Draghi fornisce credibilità momentanea. Solo per un anno, forse. Nel processo di ricollocazione politico-culturale e di ridisegno delle alleanze in vista delle elezioni del 2023 il percorso del governo è quasi ogni giorno messo a rischio nel Parlamento. Il caso del catasto è clamoroso.
La guerra chiede di accelerare le riforme, non solo quelle che condizionano il nostro accesso al PNRR, non solo quelle relative alla transizione energetica, ma anche la madre di ogni altra riforma: la riforma costituzionale/istituzionale.
Esiste uno spazio realisticamente praticabile per le riforme costituzionali, volte a rendere più stabile il governo del Paese e più efficace e utile la partecipazione dei cittadini alla politica?
La prossima scadenza elettorale offre l’occasione. Riprendendo qui una proposta di Giovanni Guzzetta, elaborata nel 2017, si può immaginare di eleggere i 400 deputati della prossima Camera con la legge elettorale vigente, visto che una migliore non si riuscirà più a produrre; ma, per quanto riguarda il Senato, cui spettano 200 eletti, esso potrebbe essere “riciclato” provvisoriamente in un’Assemblea costituente a tempo, eletta su basi proporzionali.
Il presidenzialismo di fatto, praticato dal tandem Mattarella-Draghi, da trasformare in presidenzialismo di diritto, così come viene auspicato confusamente da qualche leader di partito e da un numero crescente di cittadini, nauseati fino all’astensionismo dall’impotenza della politica, potrebbe così trovare un’elaborazione coerente.
Chi scrive propone da tempo l’elezione diretta a doppio turno del Capo dello Stato – con un riassetto dei poteri sul modello del semipresidenzialismo francese – e dei rappresentanti in Parlamento e la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni: presidenzialismo e federalismo.
Si può parlare di riforme istituzionali, mentre Putin sta radendo al suolo le città ucraine? Sì, perché occorre restituire potenza alla politica. E’ il nostro modo di stare all’altezza degli eventi da protagonisti. Riguarda i cittadini, non solo i costituzionalisti. E quello di un nuovo institution building, come dopo il 1945, è oggi l’unico modo possibile per ridare orizzonti al Paese e alle giovani generazioni, che porteranno negli anni a venire il peso degli eventi di oggi.
Il mondo non ci aspetta. Agire le riforme non è una distrazione dai compiti immediati della guerra, ne costituisce la conseguenza morale e politica. Sotto le bombe russe sta finendo l’Italietta della narrazione sovranista, nazionalista, assistenzialista, anarco-individualista, piagnona.
La guerra chiede a tutti dei sacrifici: agli Ucraini “sangue, fatica, lacrime e sudore”. Agli Italiani e agli Europei molto meno, per ora: né sangue né lacrime. Solo qualche sacrificio e molta serietà.
Editoriale da santalessandro.org, sabato, 12 marzo 2022
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.