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di Giovanni Cominelli

 

Il 2019 presenta al pianeta delle sfide immediate e imponenti. L’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) le elenca, sotto forma di domande, in un Rapporto intitolato “Il mondo che verrà: Dieci domande per il 2019”.

 

Le sfide immediate del 2019

L’Europa in pezzi? Ritorna una crisi dell’economia mondiale? Usa e Cina trattano? Il riarmo nucleare non è più un tabu? Flashmob politics: masse in rivolta? Russia e Ucraina: escalation? Siria: l’ora della ricostruzione? Iran: dopo le sanzioni il caos? Libia: l’anno di Haftar? Italia: isolata in Europa? L’ISPI si limita alla politica mondiale, non accenna qui a quelle di lungo periodo che provengono dalla demografia, dalla ricerca bio-tecnologica, dal trend climatico… L’interrogativo che insorge alle spalle è radicale: la politica italiana è in grado di rispondervi? Né il governo né l’opposizione paiono attrezzati.

Quanto al governo: nel suo annus mirabilis, non è intenzionato neppure a guardare in faccia le sfide che arrivano dal pianeta. La risposta è quella di voltare loro le spalle per rifugiarsi in una fortezza nazionale di cartapesta.

Quanto all’opposizione, nel suo anno horribilis, sunt lacrimae rerum! Diversamente dalla maggioranza, ha gli occhiali e i cannocchiali per vedere le sfide che arrivano; dispone dell’apparato concettuale per farvi fronte, ma versa in una crisi profonda e irreversibile quanto al mezzo per eccellenza: la politica stessa. Come a dire: ha buone proposte di policy, non di politics.

 

L’antipolitica è nata dalla ottusità della politica tradizionale

Per parecchio tempo, a partire dal 1989, le élite politico-intellettuali della sinistra – messe sotto assedio dal leghismo con i cappi, dai referendari, dai giudici, dalla casta dei giornalisti-anticasta, dal berlusconismo del “teatrino della politica”, dai girotondi, precursori dei flashmob, dai meet up e da tutti i “vaffa” possibili – si sono difese sprezzantemente con l’accusa-anatema dell’anti-politica. L’accusa è stata riformulata, in anni recenti, come “populismo”, notte in cui, ormai, tutte le vacche sono nere e populiste.

Ma “antipolitica” e “populismo” restano concettualmente e politicamente diversi.

Il ricorso a queste categorie ha impedito alla sinistra politica:

a) di prendere atto semplicemente che un movimento di massa “anti-politico” è, in realtà e né più né meno, un autentico movimento politico;

b) di guardare dentro di sé, revocando in dubbio modalità storiche di relazione/comunicazione con i cittadini e con le istituzioni. Già a partire dai movimenti del ’68, il sistema dei partiti era entrato in crisi di legittimazione, sotto la spinta partecipazionista. Di fronte alla quale, le oligarchie di partito si sono chiuse a testuggine e i partiti sono divenuti una scatola nera.

La crisi della forma-partito tradizionale è stata l’esito di una crescita della volontà di partecipazione democratica, di una maturazione civile del Paese, non di una degenerazione anti-politica. La risposta al referendum del 9 giugno 1991, che sceglieva nettamente il sistema maggioritario, dando un peso molto più diretto ed efficace rilevante alle decisioni dei cittadini fu invece il Mattarellum, che ostinatamente ricorreggeva/tradiva in senso proporzionalistico la chiarissima volontà di maggioritario di 26.896.979 di elettori (il 95% dei partecipanti al voto), che erano il 62,50% del corpo elettorale, che all’epoca constava di 47.377.843 aventi diritto. Insomma: la politica ha generato un’altra politica, cioè la cosiddetta anti-politica.
I referendari non chiedevano l’abolizione/superamento dei partiti, ma piuttosto una riduzione dello spessore della loro mediazione verso l’alto delle istituzioni e un allargamento della loro mediazione verso il basso dei cittadini. Con le istituzioni e con il governo i cittadini volevano rapportarsi direttamente. I partiti, vecchi e nuovi, hanno seguito la strada opposta, quella dell’affossamento della Commissione bicamerale. Se è nato un movimento “antipolitico”, è nato ben prima del cosiddetto populismo, ben prima dell’invasione del Web, è nato per ottusa responsabilità storica dei gruppi dirigenti dei partiti. Agli elettori, non basta più accompagnare il proprio rappresentante fino alle soglie di Montecitorio, delegandogli poi la scelta fondamentale del governo. C’è un nocciolo razionale nella proposta del vincolo di mandato.

 

I leader nuovi nascono e muoiono nello spazio di un mattino

La politica ha tentato di superare la crisi di rigetto con la (ri-)fondazione di movimenti o partiti a forte impronta leaderistica. Ora, una forte leadership è caratteristica di quasi tutti i partiti europei, ma essa regge se, per un verso, il governo è fortemente legittimato da una scelta più o meno diretta dei cittadini; per l’altro, se il partito è radicato nella società. La mancanza di ambedue le condizioni spiega il rapido fallimento della leadership di Renzi, la mancanza della seconda sta alla base della fragilità attuale di Macron. Tra il governo e il Paese non c’è più nessuno. Solo i media e i social.
Essa si aggrava, paradossalmente, quando il governo è politicamente e istituzionalmente forte. Un tale governo è sì in grado di fare riforme e perciò ha la forza di mettere in discussione corporazioni, interessi e stili di vita consolidati. Ma non è in grado di gestire il conflitto che inevitabilmente ne viene.

La soluzione basata su istituzioni e leader forte è necessaria, ma non sufficiente. Occorre un quid attivo in mezzo, un soggetto capace di informazione, formazione, educazione alla visione dei problemi individuali e nazionali in un contesto planetario. Serve un partito.

Si può obbiettare che l’avvento del Web lo ha reso obsoleto, perché ha trasformato ciascuno di noi in un auto-informatore, auto-formatore, auto-educatore, auto-decisore. Non abbiamo più bisogno di intermediari. L’affermazione è falsa per due ragioni. Intanto, perché proprio la vicenda politico-istituzionale di questi mesi e di questi giorni dimostra fattualmente che – Web o no – le informazioni strategiche sono state sottratte al sapere pubblico e persino alla sua rappresentanza formale in Parlamento. Di conseguenza, anche le decisioni sono state prese da un paio di leader solitari in due Camere oscure. I vincoli di interdipendenza economica e politica globale si sono rivelati più cogenti rispetto al fa-da-te individuale, cognitivo e decisionale. Uno non vale uno, da solo non vale nessuno. La seconda ragione è che la costruzione del sapere pubblico e delle decisioni accade dentro un campo mondiale di forze, la lettura del quale richiede competenze e saperi specialistici, non bastano Facebook e Twitter. Nessuna è portatore della TOE (Theory Of Everyrthing). La “teoria del tutto” è un tipo di sapere che i teologi – ma anche Newton! – attribuiscono solo a Dio.

Rovesciare McLuhan. I cittadini davvero finalmente protagonisti

Perciò, a costo di far rivoltare Marshall McLuhan nella tomba, non è affatto veritiera la nuova retorica per la quale la Rete-medium è “il messaggio”. E’ vero, viceversa, che “il messaggio è il medium”, il mezzo con cui si parla alla società. Il messaggio: cioè una visione del pianeta come è oggi, filtrata da una tavola di valori, articolata in un programma.

Di tale messaggio è parte preliminare e insieme costitutiva un nuovo assetto della politica. La politica: cioè una nuova architettura del rapporto tra cittadini-istituzioni-partiti, che preveda elezione diretta del presidente della Repubblica, nuovi partiti del sapere e dell’educazione. Detto in altro modo: un nuovo sistema elettorale, un nuovo sistema istituzionale, un nuovo sistema politico.

Non c’è nulla da inventare rispetto al dibattito iniziato dopo il 1989. Si tratta soltanto di prendere atto che la seconda parte della Costituzione del ’48, scritta dentro il contesto globale della Guerra fredda, è irreversibilmente obsoleta nel nuovo contesto del disordine mondiale del XXI secolo. Il PD si illude gravemente se pensa di rifondarsi, camminando all’indietro sulla corda tesa tra i vecchi assetti della politica e quelli nuovi.

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