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Legare la sorte del Pd al carro di Grillo e Conte? Un errore politico

Umberto Ranieri martedì 15 Febbraio 2022
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di Umberto Ranieri

 

1- Il dato politico con cui occorre fare i conti all’indomani del voto per il Quirinale è il crollo delle alleanze politiche apparse dominanti nella fase conclusiva della legislatura. La convulsa vicenda della elezione del presidente della Repubblica ha svelato la inconsistenza di un bipolarismo sgangherato e ha fatto emergere la inaffidabilità politica e la propensione alla manovra avventurosa di Giuseppe Conte (le cui scelte politiche non condividiamo e contrastiamo ma non deve essere un giudice a stabilire chi debba essere il capo del 5Stelle). Giuseppe Conte ha condizionato la condotta e i comportamenti di Enrico Letta costringendolo all’immobilismo o ad un gioco di rimessa. Mosso da una fanatica ostilità, ha contrastato la possibile candidatura al Quirinale di Mario Draghi e ha poi tentato una spericolata operazione di alleanza con Salvini e Meloni, operazione cui faticosamente si è sottratto il Pd.

2- La linea politica che ruotava intorno alla alleanza strategica tra Pd e 5Stelle ha perso credibilità. E’ stato un errore politico aver pensato di legare la sorte della sinistra e del Pd al carro di Grillo e Conte. Vedremo gli sviluppi del contrasto interno ai penta stellati. Oggi la vera questione per il Pd è quella posta da Biagio de Giovanni: riconquistare una autonomia ideale e politica. La convocazione di un congresso potrebbe consentire una riflessione di fondo sul Pd e la sua prospettiva politica. Aveva ragione Pietro Scoppola quando si mostrava scettico rispetto alla formula dei riformismi che si incontrano posta a base del sorgere del Pd. Sosteneva lo storico cattolico che “di riformismo in questo Paese ce ne era stato ben poco”. In realtà, la fusione tra le culture politiche che diedero vita al Pd  si è mostrata una operazione poco feconda. Occorreva spostare in profondità, a livello culturale il processo di fusione ritrovando un cemento politico ideale in grado di tenere insieme il partito  al di là delle differenze inevitabili in una formazione pluralista. In questa direzione non si è lavorato. Forse è giunto il momento di riprendere la intuizione di Scoppola.

3- Il Pd dovrebbe recuperare il progetto di partito a vocazione maggioritaria. Al di là degli equivoci che si sono addensati su tale strategia, vocazione maggioritaria vuol dire pensare al Pd come una forza che punti ad insediarsi in uno spazio politico più largo del bacino di consenso originario, capace di comunicare una certa idea del Paese, di raccogliere pulsioni, domande e aspirazioni, di delineare una prospettiva di crescita e di modernizzazione, di renderla credibile attraverso scelte programmatiche conseguenti e  un profilo coerente e affidabile della sua leadership. Una forza politica di centro sinistra che è la forma stessa che la sinistra deve assumere se vuole vincere le sfide elettorali e politiche in società investite da profondi cambiamenti demografici e culturali.

4- In coerenza con un tale impianto politico il Pd dovrebbe compiere una scelta di fondo: farla finita con una politica schiacciata sul breve termine. I problemi in cui si dibatte il Paese, resi ancora più gravi dalla epidemia, impongono un mutamento. Non incentivi o benefici fiscali ma investimenti pubblici per  infrastrutture materiali e immateriali, crescita del capitale umano, sistema di welfare orientato in senso universalistico, servizi e  sostegno alle innovazioni tecnologiche, tassazione efficace e progressiva. Questa la via per rispondere ai problemi che l’Italia affronta nella grande transizione in cui è immersa. La via definita nel Pnrr e nell’indirizzo programmatico della Unione europea teso a promuovere politiche economiche che perseguano la crescita della occupazione e uno sviluppo sostenibile e inclusivo.

5- Questa impostazione non contraddice l’idea che maturi una soggettività politica liberale, europeista, organicamente riformista attenta alle questioni dello sviluppo economico. Un soggetto politico che sorga grazie alla iniziativa di forze di cultura liberaldemocratica, cattolica, radicale e socialista presenti oggi nella vicenda politica italiana. Un processo politico a cui il Pd non potrebbe che guardare con interesse e considerare essenziale nella costruzione di una alleanza progressista. Muovere in questa direzione comporta la riforma della legge elettorale. Questione complessa e delicata.  Ripristinare il sistema proporzionale? Rifletto su quanto scrive Angelo Panebianco: “Il male principale del proporzionale  è l’immobilismo, non c’è sintesi politica possibile, ciascuno resta inchiodato nella difesa degli interessi e delle idee della più o meno porzione di elettori di cui ha bisogno per essere rieletti”. Parole che occorre considerare scrupolosamente.

6- Il centro destra esce politicamente lacerato dalla “settimana quirinalizia”. Non è il caso tuttavia di illudersi circa un suo prossimo ridimensionamento elettorale né che si sia alla vigilia di una partecipazione di FI o di sue componenti alla creazione di un “centro politico” che non escluda di allearsi con il Pd. Che il confronto interno al centro destra possa risolversi con la separazione di una componente essenziale come FI non lo ritengo realistico né auspicabile. E’ nell’interesse della democrazia italiana e del bipolarismo che FI resti una componente del centro destra legata al Ppe e dal forte profilo europeista, una forza impegnata a battersi per  irrobustire il profilo di governo del centro destra e a liberare la coalizione da suggestioni anti europee, da tentazioni populiste. Senza Forza Italia il centro destra si condannerebbe ad una inevitabile opposizione e sorgerebbe una sorta di nuovo “accordo per escludere”che  comprometterebbe la democrazia fondata sull’alternanza.

7- Draghi è rimasto a Palazzo Chigi. Costituisce un punto di forza nel lavoro che il Paese ha da compiere per fronteggiare la pandemia e garantire il consolidarsi della ripresa economica.  Resto persuaso tuttavia che la sua fosse la migliore delle soluzioni possibili per il Quirinale: la candidatura più naturale. Il presidente della Repubblica è garante della unità nazionale e allo stesso tempo della appartenenza dell’Italia alla Unione europea. Al Quirinale Mario Draghi sarebbe stato in grado di sorvegliare attentamente che le scelte sul piano economico corrispondessero agli impegni assunti in sede europea  rispettando le procedure e i tempi dell’imponente piano di riforme previsto dal Pnrr. Non solo. Da presidente della Repubblica Mario Draghi avrebbe potuto sollecitare e indirizzare l’azione del Parlamento verso il rinnovamento delle istituzioni, esigenza ormai improrogabile. Lasciamo perdere gli estremismi beceri di chi ha puntato a presentare il governo guidato da Mario Draghi come una sospensione della democrazia, subordinato alla grande finanza internazionale. Così come eviterei la retorica del reincarico come “investitura dal basso”. Ha pesato il timore di chi sosteneva che eletto Draghi al Quirinale lo scioglimento delle Camere fosse inevitabile quando in realtà sarebbe stato realistico un patto politico per tenere in piedi la legislatura ancora un anno e ottemperare agli impegni del Pnrr. Lo stesso Salvini in uno dei pochi momenti di lucidità aveva fatto cenno a questa possibilità, proposta anche da Letta. A Mario Draghi è affidato il compito di concludere la legislatura. Lo farà con dignità ed efficacia. Ma attenzione, ancora pochi mesi poi si scatenerà il corpo a corpo elettorale. Con le elezioni del 2023, poi, qualunque sia lo schieramento a prevalere, Mario Draghi uscirà di scena, fuori dal Quirinale e da Palazzo Chigi. Poca cosa? L’Italia si priverà, per responsabilità della ambiguità e della ignavia dei partiti, di una personalità il cui valore è riconosciuto ovunque, che ha rimesso in carreggiata il Paese dopo i guasti dei populisti al governo. Un leader politico competente e estraneo alle tradizionali pratiche cui è aduso il ceto politico italiano da tempo. Così vanno le cose dalle nostre parti, ahimè.

  

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