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Leggere Mounier per una sinistra non comunista e per una pace che non sia resa

Stefano Ceccanti venerdì 21 Marzo 2025
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di Stefano Ceccanti

 

Per capire bene l’importanza di Mounier possiamo porci quattro domande fondamentali.

La prima, pregiudiziale, è la seguente: perché accostarsi al pensiero di Emmanuel Mounier?

Fondamentalmente perché, come spiegava il suo collaboratore Jean-Marie Domenach, non si tratta di un sistema chiuso, ma di una “matrice filosofica”, di una costruzione aperta, cosicché ogni volta che si va a rileggerlo provoca pensieri nuovi. Ciò si rispecchiava anche nel metodo di lavoro: per quanto debitrice del cristianesimo, questa variante del personalismo comunitario, a differenza del percorso più tormentato di Maritain, parte già da luoghi misti di persone di diversa ispirazione religiosa e ideale chiamate a produrre mediazioni nuove tra principi, valori e realtà, come volle che fosse fin dall’inizio la Rivista “Esprit”. Ovviamente c’è anche una distanza di cui tenere conto, che fu ben spiegata nel 2000 da Paul Ricoeur: tutta la riflessione degli anni ’30 soffriva di un certo catastrofismo dottrinario che svalutava l’eredità del liberalismo, specie delle istituzioni pur imperfette degli anni ’30 e di una certa eccitazione rivoluzionaria. 

La seconda, domanda pre-politica, è questa: quale è la concezione della persona che porta poi alla sua visione della politica?

Mounier ragiona anzitutto in termini antropologici. Il cristianesimo fa leva sulla parte di bontà dell’animo umano e su una prospettiva di redenzione. In questo senso prospetta traguardi elevati. Tuttavia è anche consapevole del peccato, della parte di male che c’è nelle persone e che si manifesta anche nella volontà di potenza e non può quindi, ove necessario e opportuno, rinunciare a priori anche a mezzi imperfetti. Non a caso, Mounier usa le nozioni di ‘ottimismo tragico’ o di necessità di fusione nella stessa persona di polo profetico e polo politico, cioè per un verso di spinta verso gli ideali e per altro verso di grande attenzione ai mezzi. La persona che voglia avere un approccio completo all’impegno, anche politico, deve coniugarli per non cadere nei difetti opposti di un astratto idealismo o di un cinico pragmatismo. Per questo al centro della sua teoria dell’impegno c’è l’idea del valore della scelta per cause imperfette. La “forza creatrice” dell’impegno nasce infatti per Mounier dalla “tensione feconda che esso suscita fra l’imperfezione della causa e la sua fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco.”

La terza è la seguente: Mounier ci dà anche un orientamento generale di posizionamento politico?

Qui Mounier è molto preciso e molto moderno: non ha nessun problema a collocarsi sull’asse destra-sinistra e rifiuta l’idea di un centrismo inteso come palude, una sorta di astensione che sfugge appunto dalla scelta per le cause imperfette. Ritiene che il personalismo porti naturalmente ad una scelta per la “sinistra non comunista”, come teorizza in modo compiuto nel Febbraio 1950 nel suo ultimo scritto, “Fedeltà”.

Per Mounier l’esperienza comune nella Resistenza aveva reso obsoleta la frattura laici-cattolici risalente alla Rivoluzione e per questo si sarebbe dovuto costituire un grande partito misto di laici e cattolici nettamente distinto sia dai conservatori sia dai comunisti. Alla divisione destra-sinistra e al ripudio del conservatorismo, con cui si era invece legato il cattolicesimo post-rivoluzionario, non attribuiva affatto una valenza morale, tant’è che riconosceva anche istanze di valore presenti nella destra, solo che essa, ai suoi occhi, era comunque portatrice di un “disordine stabilito” che voleva far passare per “ordine giusto”.

Alla Liberazione questa ipotesi fu sconfitta e nacquero separatamente la Sfio (socialisti) e l’Mrp (democristiani). Con tutto il bene che si possa dire per entrambi quei partiti, specie riguardo alla costruzione europea, la sua profezia era però azzeccata: come partiti separati la Sfio sarebbe sembrata più piccola e anche per questo meno attrattiva dei comunisti e l’Mrp sarebbe stato trascinato verso destra dai propri elettori. Per questo ribadisce nel 1950 in modo più organico la sua pars construens: un partito unico della sinistra non comunista a vocazione maggioritaria, ben distinto dal “laburismo dei cenacoli”, dalle debolezze di metodo dei socialismi pre-marxisti, non ossessionato dall’ “anticomunismo sistematico” ma neanche dedito al “criptocomunismo”.

Un partito del genere avrebbe potuto collaborare da posizioni di forza, egemoniche, con un comunismo” uscito da un vicolo cieco”. Per questa ragione, quando quel sogno si concretizzò una ventina di anni dopo, cominciando, anche grazie a molti suoi allievi come Jacques Delors, a rendere possibile un’alternanza democratica, accadde una cosa fino ad allora impensabile: nel congresso costitutivo del nuovo Partito Socialista a Epinay nel 1971 il nuovo segretario Mitterrand, nella Francia della laicità, per quanto non particolarmente positivo nei confronti di Delors e di Rocard, pronunciò persino il nome di Dio: “I personalisti di Emmanuel Mounier sono, colgo l’occasione per dirlo, Dio sia lodato, fra di noi… e che forse per la prima volta quello che succede in seno al mondo cristiano, e particolarmente la Chiesa cattolica, può significare.. l’appuntamento in cui hanno sperato tutti quelli che da almeno 25 anni, e lo hanno detto, sono andati in questa direzione”.

La quarta domanda è questa: perché con la guerra in Ucraina è ritornato particolarmente attuale il pensiero di Mounier sulla pace, di cui sembra essere in particolare erede il Presidente Mattarella?

Questo accade perché il lungo periodo di pace in Europa, dovuto principalmente alla Nato e al deterrente americano, ha alimentato una visione astratta e controproducente di pacifismo, simile a quella che si voleva affermare verso Hitler per non ripetere in nessun modo gli orrori di vent’anni prima, ma che in realtà, cedendo all’aggressore, portò esattamente a quell’esito che si voleva evitare.  Scrivendo dopo gli accordi di Monaco, e prima che la guerra scoppiasse, Mounier spiegava esattamente questa eterogenesi dei fini: il cristianesimo punta ad allentare la “servitù della forza” per far prevalere altrimenti giustizia e carità, ma non è una pedagogia facile, immediata e neanche irreversibile: riemergono infatti costantemente “potenze oscure […] dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato”.

Occorre quindi prendere atto della distanza che separa “il realismo cattolico e una certa ideologia pacifista”, giacché “al di fuori dei sentieri della santità integrale”, dopo aver esperito seriamente tutte le alternative possibili, “può arrivare il momento in cui tali mezzi si rivelano definitivamente inefficaci”. Per questo, proprio per evitare la guerra non si può escludere a priori il rischio di guerra: “il rischio è ovunque, salvo nell’avvilimento o nel suicidio deliberato. […] Deve essere corso, facendo al contempo uno sforzo tanto più eroico per scongiurarlo”. Volere a tutti i costi eliminare tale rischio”, significa pagare quello stesso prezzo che l’avversario richiede, cioè il tradimento dei valori e il suicidio morale e poi fisico. Non a caso il suo bersaglio polemico, il socialista francese Marcel Déat che aveva proposto l’appeasement con Hitler col celebre testo “Morire per Danzica?” sarebbe finito poi a fare il ministro tra i collaborazionisti di Vichy, mentre Mounier si impegnò nella Resistenza.

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